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Alle origini del debito pubblico italiano

2009
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Tempo di lettura: 4’. Leggibilità **.

Padri del debito pubblico.

Il fardello del debito pubblico che incombe su di noi, tarpando i tentativi di ripresa economica, non è un fungo malefico nato spontaneamente in una notte di novilunio.

Esso ha origini precise e responsabilità definite. Temporalmente la sua esplosione si colloca tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta e la causa sta nel rapporto bloccato tra i principali partiti politici di allora: Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista. Il punto di sintesi di ogni accordo è stato scaricato nella fonte ritenuta inesauribile dell’indebitamento pubblico.

Il grafico qui sotto mette chiaramente in luce il periodo nel quale è iniziata l’inarrestabile ascesa dello squilibrio finanziario dello Stato italiano, conducendoci fino ad oggi.

Prima la fase del consociativismo catto-comunista, quindi l’illusione democristiana di giocare alternativamente sul fronte dell’alleanza con il Pci e con il Psi (i “due forni” tornati ora di moda), infine il tentativo, miseramente terminato con tangentopoli, del Psi di porre su basi nuove il tema della governabilità e delle riforme sanciscono la perdita di controllo della variabile finanziaria pubblica.

Aiuti o sprechi?

Quella crescita coincide anche con l’avvio delle Regioni, con gli aiuti a pioggia al Sud dopo il terremoto dell’Irpinia, in assenza di programmazione e di controlli sulla efficacia degli interventi.

L’enormità dei flussi pubblici impiegati non ha consentito né di rendere più resiliente alle crisi l’apparato economico italiano ne’ di coprire gap strutturali come quello tra Nord e Sud. Che anzi si sono nel frattempo divaricati (salute, scuola, infrastrutture), alimentando da ultimo la via delle autonomie.

Va riconosciuto alla politica craxiana dei primi Anni ottanta il contributo alla rottura della spirale inflazionistica, generata dai meccanismi automatici di crescita del costo del lavoro.

Debito pubblico e Pil (su dati Istat)

La condizione finanziaria sfibrata nella quale il trattato di Maastricht (1992) trovò il Paese ci costringe da allora a estenuanti manovre per restare lungo un esile sentiero, sotto il pungolo costante dei nostri partner europei.

Da allora i provvedimenti dei vari governi hanno assunto carattere di breve respiro.

Oggi il costo del lavoro non è più elemento che scoraggia nuovi investimenti. Il reddito è stato redistribuito a favore del capitale e delle rendite. È divenuto invece fattore di declino la caduta della produttività, a sua volta effetto dei relativi investimenti infrastrutturali e tecnologici degli ultimi decenni.

Un bel libro

Ricostruisce la storia politica di quegli anni un bel libro, uscito in questi giorni, centrato sulla parabola del leader socialista di allora: Craxi Le Riforme e La Governabilità (1976-1993) di Edoardo Tabasso, con saggio introduttivo di Zeffiro Ciuffoletti, Lucia Pugliese Editore – Il pozzo di Micene, pagg. 310, € 16,00.

Il libro è un circostanziato racconto, basato su una corposa e ragionata documentazione, del tentativo socialista di rompere il blocco cattocomunista. L’obiettivo era di dare al paese stabilità di governo, riposiziondolo dopo il crollo del muro di Berlino. Questa linea emerge chiaramente dai testi dei discorsi e degli altri documenti redatti dal protagonista di quegli anni.

Assieme a questi fattori messi positivamente in luce, nel saggio sono altrettanto ben descritte le indecisioni (ad esempio sul tema delle privatizzazioni del patrimonio pubblico) e le contraddizioni (essenzialmente sul finanziamento della politica) che avrebbero alla fine travolto il suo stesso protagonista, peraltro con aberrazioni del circo mediatico-giudiziario che accompagnarono le ultime vicende, fino alla drammatica conclusione della prima repubblica.

Esplosione e inefficienza della spesa pubblica sono la cartina di tornasole dell’involuzione del sistema, che, ancor oggi, ci tocca tanto da vicino.

Le mani partitiche sul debito pubblico è il punto di convergenza degli interessi che si contrapposero.

Come si legge nel libro, “il combinato disposto tra sistema parlamentare a governo debole e sistema elettorale proporzionale…col tempo aveva consolidato il sistema partitocratico, trasformando la repubblica parlamentare in repubblica dei partiti.”

Ma da allora che cosa è cambiato?

Il debito pubblico ha continuato a svilupparsi a prescindere, rallentando all’inizio del nuovo millennio, senza assumere però il carattere di un contenimento strutturale. Poi è intervenuta la crisi a far riprendere le vecchie dinamiche. Se osserviamo gli ultimi anni, la leggera ripresa del Pil è stata accompagnata da una crescita ben più forte dell’indebitamento pubblico.

Il libro sostiene che il fallimento di quel tentativo di rinnovamento, che aprì la strada alla seconda repubblica, abbia rappresentato un’opportunità perduta, dalla quale sono nate le contraddizioni del periodo successivo e il progressivo declino del paese.

Forse sarebbe fin troppo facile attribuire l’origine della mala pianta a quella prima rottura, perché ciò assolverebbe, almeno in parte, chi ha governato in seguito. Nei fatti c’è una continuità che non sottrae responsabilità ai successivi governanti.

Da allora il mantra delle riforme, sistematicamente invocato e sistematicamente mancato, quale condizione per riacquistare maggiore autonomia di spesa rispetto alle regole europee, ha accomunato tutti i governi.

Riforme costituzionali, riforme della PA, riforme fiscali e altre che sarebbe lungo elencare. Tra queste, forse meritano, a contrario, di essere citate le riforme elettorali e quelle previdenziali che invece si sono invece succedute a ripetizione e che forse dovrebbero più di tutte rimanere ferme nel tempo.

Il governo tecnico è evocato come risposta alla incapacità di trovare sentieri di riequilibrio economico-finanziario d’ordine strutturale. Alle mani più lasche dei governi politici, si possono sempre alternare “le braccia più corte” di quelli tecnici, con sterzate correttive, ma anch’esse mai risolutive.

Quello del debito pubblico è il terreno più favorevole per far nascere politiche in grado di catturare rapidamente consensi e altrettanto rapidamente di farli perdere.

Nei dieci anni della crisi economica abbiamo avuto sei governi, di tutte le declinazioni politiche. Tanto per memoria si sono succeduti l’ultimo governo di centro destra di Berlusconi, il governo tecnico di Monti, tre governi di centro-sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni) impegnati a differenziarsi tra di loro, un governo giallo-verde, con una poco conciliabile formula che ha portato alla rottura di questi giorni. Il settimo è alle porte con dichiarata sicurezza di mettere finalmente le mani sui mali endemici del paese. Forse sarebbe troppo per qualsiasi altro paese.

Miti, spauracchi e chimere

Il mito delle riforme e il periodico spauracchio dei governi tecnici sono dunque le verghe del binario lungo il quale siamo destinati a viaggiare, evitando deragliamenti anche centesimali delle principali variabili economiche e sperando in qualche accondiscende flessibilità europea.

Il mitico mostro della Chimera

Nel contempo le drammatiche vicende politico-giudiziarie che portarono alla fine del leader socialista Bettino Craxi non ci hanno da allora privato di scandali e corruzione, alimentando il dubbio che bambino e acqua sporca siano da noi indissolubilmente intrecciati. L’evasione fiscale è aumentata.

Noi pretendiamo di essere talmente bravi da alimentare e gestire tutte le nostre peculiarità, con le fantasie politiche delle quali ci proclamiamo maestri. Le chimere delle riforme e della governabilità continuano a trovare nel debito pubblico i loro irrinunciabili pascoli, mentre la recessione annunciata ci troverà nella condizione di avere poche risorse da destinare alla sua attenuazione. In conclusione, non c’e nulla di nuovo sotto il sole, a cominciare dalle nostre deboli sorti.

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