Home Imprese&Lavoro Conoscenze o competenze nei neo assunti? Il dilemma dell’imprenditore

Conoscenze o competenze nei neo assunti? Il dilemma dell’imprenditore

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Un’immagine dal Chianti Economic Forum 2019
Tempo di lettura: 4’. Leggibilità **.

Il capitale umano nelle economie locali

Tra i tanti eventi che fanno del Bel Paese un luogo di eccellenza del “verba volant”, ho scelto, e non mi sono pentito, di partecipare alla seconda edizione del Chianti Economic Forum, svoltosi presso la Cantina Antinori di Bargino, lungo la superstrada Firenze-Siena. Un capolavoro di architettura e di innovazione nella produzione vitivinicola, mirabilmente inserito nel fascinoso paesaggio del Chianti.

Il Chianti Economic Forum propone la discussione di temi economico-sociali di attinenza a quel territorio, facendo perno su due indiscussi primati produttivi nell’agroalimentari del Made in Italy: il vino e l’olio.

Anche per questi settori, si pone il tema dell’innovazione tecnologica dell’internet delle cose, dai big data, della blockchain e della intelligenza artificiale.

In questa occasione, il tema era però ancora più avvincente, riguardando la questione dell’adeguatezza del capitale umano in rapporto a vecchi e nuovi bisogni dell’economia locale, relativamente alla quale si assiste alla diminuzione dei tassi di occupazione dei giovani maggiormente scolarizzati.

Il focus dell’iniziativa è stato l’interessante dibattito affidato ai vertici di tre delle principali società attive nelle produzioni di cui sopra relativamente al potenziamento del capitale umano.

Conoscenze vs competenze

Quando si affronta il tema complesso della copertura del divario quanti-qualitativo tra offerta e domanda di lavoro in un mondo di rapidi cambiamenti, ci si concentra sulla esigenza di maggiore formazione professionale dei nuovi addetti.

Il mondo della produzione ripete di continuo che la scuola non può ignorare i bisogni della società, come ha anche stabilito dal 2015 la Legge della Buona Scuola, istituendo l’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro, definita come modalità didattica innovativa per gli studenti degli ultimi tre anni delle Superiori. L’obiettivo è di consolidare le conoscenze acquisite a scuola, attraverso esperienze pratiche. Lo slogan più ricorrente è rafforzare la relazione tra sapere e saper fare.

E’ con questa premessa che ho ascoltato con interesse la presa di posizione contraria a questo approccio da parte di uno dei dirigenti d’azienda intervenuti al dibattito.

Mi aspettavo infatti che avrebbe portato argomenti a sostegno dell’interesse delle imprese di disporre di forza lavoro già relativamente formata, al momento dell’uscita dalla scuola, lamentandosi dei limiti della condizione attuale.

Egli, invece, ha più volte ribadito l’importanza dello studio scolastico per garantire le conoscenze dell’individuo, senza che questo compito possa confondersi con la formazione delle competenze, proprio del mondo del lavoro e della produzione.

La scuola e l’impresa

Nei fatti, ha continuato, la commistione tra conoscenze e competenze, coniugando i compiti della scuola con le specificità dei tessuti produttivi, impatta negativamente sia sulla robustezza dei fondamenti cognitivi sui quali innestare le prassi decisionali, sia sulla costruzione di individualità in grado di maturare una visione critica delle complessità della impresa moderna.

Tenere distinti istruzione e competenze, sapere e saper fare, istruzione e formazione non solo evita che alla fine si riversi sulla scuola anche questo compito, cosa che darebbe un’ulteriore spinta alla sua crisi, ma che si coltivi un’illusione foriera di svantaggi anche per l’impresa.

Per quanto riguarda gli effetti sulla scuola, il recente saggio di Ernesto Galli della Loggia L’aula vuota, recensito su questa piattaforma, affronta con profondità e amarezza il tema della crisi del nostro sistema scolastico, rinvenendone le cause anche nella progressiva confusione del ruolo.

Relativamente all’impresa, sarebbe anch’essa a soffrire dello snaturamento della scuola, finendo per coltivare una cultura della futura dirigenza di tipo pratico-operativo piuttosto che basata sulle conoscenze tecnico-scientifiche sottostanti alle attività economiche da sviluppare e poco aperta a costruire visioni d’insieme, innovative e strategiche, che rappresentano l’elemento fondamentale di sopravvivenza e di crescita.

Con uno sguardo alle nostre difficoltà di ripresa economica (scarsi investimenti in innovazione, parcellizzazione delle imprese), abbiamo lo spunto per riflettere su un probabile fattore della nostra attuale condizione di declino, quali possono essere i deficit manageriali e imprenditoriali.

Una testimonianza personale

Nella mia esperienza al vertice di una azienda di non grandi dimensioni, mi sono posto anch’io il problema delle caratteristiche che avrebbero dovuto possedere gli elementi da inserire nella organizzazione, perché fossero avviati ad un percorso dirigenziale.

Pur profondamente convinto della importanza della formazione scolastica, il punto era se la ridotta dimensione d’impresa dovesse impedire il ricorso a candidati con elevati livelli di scolarizzazione (lauree magistrali, master di primo o secondo livello), limitando la selezione ad addetti con più limitate conoscenze, ma con maggiori competenze immediate.

Devo dire di aver risolto il dilemma in maniera netta, senza mai dovermi pentire della scelta. Ho ritenuto e ritengo infatti che anche la PMI debba poter prelevare candidati aventi il livello massimo possibile dell’offerta scolastica, financo usciti da scuole di eccellenza, di solito campo esclusivo di recruiting delle grandi organizzazioni.

PMI e scuole di eccellenza

L’impresa da me diretta si è dunque trovata orgogliosamente da sola in mezzo a grandi campioni nazionali privati e pubblici a finanziare, anno dopo anno (per sette anni) e costi davvero sostenibili, una borsa di studio per un master di secondo livello di una delle migliori università italiane. Al termine del quale ho offerto annualmente ad un elemento che avesse concluso positivamente il corso una collocazione in azienda, senza escludere titoli di laurea apparentemente lontani dal mondo dell’impresa.

Era poi mio compito predisporre un percorso di inserimento degli individui così selezionati in grado di coniugare le conoscenze acquisite con la progressiva formazione lavorativa, valorizzandone anche le ambizioni. È stata una policy vincente per il singolo e per l’impresa, della quale vado orgoglioso.

Come vado orgoglioso del fatto che molti di essi abbiano proseguito il proprio percorso professionale in società più grandi. Perché la mobilità e la pluralità di esperienze sono comunque indispensabili alla costruzione delle migliori professionalità.

Trovo al contrario che l’obiettivo di far entrare al più presto possibile i nuovi assunti in un contesto produttivo per ricavarne immediati risparmi di costo e rapidi apporti alla produzione si sconteranno dopo in termini di valenza della classe dirigenziale.

Mi piacerebbe che queste fin troppo sintetiche parole potessero avviare un dibattito sulla questione.

 

 

 

 

 

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