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Mar gh’era, un film che parla alla coscienza

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Tempo di lettura: 3’. Leggibilità **.

Nel 1917, in piena guerra mondiale, viene fondato Porto Marghera, strappando il sito a un’ampia zona paludosa e malarica, per farne un polo nazionale della industria chimica e petrolchimica. Il toponimo in dialetto veneziano e’ una mirabile sintesi della sua origine: mar ghe gera e cioe’ “li’ c’era il mare”.

Nel film, di appena 60 minuti, in modo essenziale e scarno, 100 artisti indipendenti recitano insieme nel centenario di Porto Marghera, riuniti sotto la regia di Giulio Boato che ha tratto il racconto da una performance di Laura Boato.

Un impetuoso sviluppo industriale attirò migliaia di lavoratori dal Sud e dalle aree interne del Veneto. La consapevolezza di tutti era che a ridosso del Centro di Venezia, subito dopo il ponte della Libertà, si addensavano le industrie più pericolose e rischiose per la salute umana.

Com’era dunque Marghera?

Il dilemma o forse il ricatto è che il lavoro e il benessere vanno pagati sulla pelle dei lavoratori. I profitti e l’occupazione che nascono da quell’espansione industriale senza precedenti per il nostro paese sanno anche di malattia e morte. Un secolo di corsa, allora, che è movimento, danza, incontro tra popoli diversi, maestranze, rullo di tamburi che scandisce molti passaggi del film.

La nascita della classe operaia che trova il coraggio di opporsi come può, azione che singolarmente non farebbero mai. Un gioco troppo grande da vincere da soli. La condanna, dopo lunghi processi, dei dirigenti Montedison, per le morti in fabbrica causate da una rara forma di tumore collegata alle lavorazioni chimiche.

Per una serie di circostanze, le vicende di Marghera trascendono Venezia e sono emblematiche di conflitti su scala nazionale che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale del nostro paese e stanno esplodendo proprio in questo periodo. I limiti di questo sviluppo si chiamano Ilva, Autostrade, MOSE, dissesto idrogeologico, fiume Sarno e stanno inghiottendo vaste aree del paese in un triste declino, forse irreversibile.

Suscita timore e preoccupazione la incapacità della nostra classe dirigente di affrontare i tanti dilemmi di un’industria fatiscente e fortemente inquinante. La salute che se ne va in cambio di lavoro e salario. La salute umana non solo dei lavoratori, ma anche dei residenti intesa come squallida merce di scambio.

La deprecabilita’ delle non scelte si incunea nei territori in cui abitiamo, creando contraddizioni irrisolte e drammatiche. Se chiudono i siti, come a Bagnoli, si salva la salute umana, ma si perdono posti di lavoro, investimenti e PIL. All’opposto, come sta accadendo a Taranto, mantenere in vita il polo dell’acciaio compromette la salute, ma salva i posti di lavoro.

Nel film c’e’ un accenno a un modo diverso per uscire da questi dilemmi, quello del bacino minerario della Rhur. Qui, un’esperienza eccellente di riqualificazione ha seguito modelli di politiche territoriali pubbliche attente al paesaggio e alle esigenze della cittadinanza.

Le nostre scelte scriteriate sono denunciate all’opinione pubblica dal docufim che circola qui a Venezia solo per pochi giorni. Niente di nuovo, si dirà, ma è bello vedere che chi ci racconta queste storie ha voglia di riprendersi la propria vita e il proprio futuro tra le mani.

Prendendo spunto da esso, sarebbe anzi utile che altri documentari in altri siti sparsi in Italia raccontassero quello che è accaduto, certo per non dimenticare ma anche per formare una coscienza comune più attenta e consapevole.

Per dare un contenuto concreto a termini come sviluppo sostenibile, ecologia e rispetto dell’ambiente. E per evitare, se possibile, la vuota retorica e i richiami sguaiati di una classe politica che non riesce a fare i conti con la storia e la realtà del proprio paese.

E perché non inaugurare, in uno dei tanti festival del cinema che si svolgono annualmente, una sezione che raccolga questi contributi e le proposte che pure non mancano, semmai ispirandoci alle migliori esperienze estere? Per provare a cambiare qualcosa se proprio non riusciamo a cambiare noi stessi.

 

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