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Che cosa hanno in comune Steve Jobs e Leonardo da Vinci

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Le copertine delle due biografie dello studioso americano Walter Isaacson (Mondadori).

Tempo di lettura 10’. Leggibilità ***.

Un filo rosso.

Stabilire un filo rosso tra Leonardo da Vinci e Steve Jobs non è una fantasiosa teoria basata su ragionamenti indiziari. A farlo non sono dilettanti o fan del co-fondatore di Apple, ma uno studioso accreditato come Walter Isaacson che ha scritto le corpose biografie dei due uomini. Quella di Jobs nel 2011 e quella di Leonardo nel 2017, probabilmente la seconda ispirata dalla prima. Dire che è la genialità ad accomunarli è un non senso. Quella del genio è una categoria troppo vasta per spiegare qualcosa.

Ci sono sicuramente punti di contatto nella vita e nelle opere di Leonardo e Jobs. Potrebbero essere casuali, ma potrebbero anche esserci dei leganti. Sicuramente c’è mezzo millennio tra i due.

Eppure:

Entrambi sono cresciuti in un milieu familiare problematico. Leonardo era figlio illegittimo, Jobs fu abbandonato dai genitori. Entrambi crebbero nell’ambiente più stimolante della loro epoca. Leonardo nella Firenze rinascimentale, Jobs nell’immenso laboratorio della Silicon Valley e nella controcultura di San Francisco.

A sinistra l’esaedro regolare o cubo disegnato da Leonardo da Vinci per il trattato “De Divina proportione” di Luca Pacioli. A destra il NeXTcube progettato da Jobs e dal team di NeXT.

Entrambi erano dropout. Leonardo si definiva “omo sanza lettere” per via del latino che non conosceva. Jobs lasciò subito il Reed College sicuro che gli studi universitari “non l’avrebbero aiutato nella vita”. Entrambi si sono formati negli ambienti dove l’innovazione furoreggiava: Leonardo nella bottega del Verrocchio e Jobs all’Atari di Nolan Bushnell.

Entrambi conobbero l’amarezza del rifiuto delle loro comunità. Leonardo di Firenze e Jobs della Apple. Sia Leonardo che Jobs erano ossessionati dal cibo con motivazioni sorprendentemente analoghe.

La purezza

Forse, per restare sull’indiziario, è il concetto di purezza quello che più avvicina Jobs a Leonardo. Il primo lo aveva derivato dal buddismo, il secondo dal milieu culturale dei neoplatonici che si raccoglievano intorno alla corte di Lorenzo il Magnifico.

Evgeny Morozov ha dedicato, nel suo Contro Steve Jobs, pagine molto sottili al ruolo della purezza nella concezione dei prodotti da parte di Steve Jobs e dello stesso Jonathan Ive, il chief design della Apple dal 1997 al 2019.

Leonardo Da Vinci, Dama dell’ermellino
Anche Leonardo ricercava la purezza nella vita e nell’opera.
Per esempio rifiutava la carne, inoltre i rapporti carnali non lo interessavano perché impuri, anche se, nei suoi studi anatomici, li raffigurava.
Ammirava la purezza dell’Ermellino che ritraeva come una deità in un famoso dipinto conservato a Cracovia.
Annotava nel Codice Atlantico: «Prima vol morire che ’mbrattarsi… [l’ermellino] per la sua moderanzia, non mangia se non una sola volta al dì, e prima si lascia pigliare a’ cacciatori che voler fuggire nella infangata tana. Per non maculare la sua gentilezza».

La ricerca della purezza spingeva entrambi verso la perfezione formale ed estetica. Le opere di Leonardo e i prodotti di Jobs sono frutto di un interminabile processo di raffinamento di semplificazione/essenzializzazione quasi metafisica.

Era un lavorio estenuante e anche dispendioso di tempo e di energie. Costituiva anche uno sfinimento per i committenti nel caso di Leonardo e per i sodali per Jobs. Quando andavano a dirgli che qualcosa era impossibile o pazzesca, lui rispondeva: “Si può fare e adesso mettiamoci al lavoro”. E loro si mettevano al lavoro.

La ricerca di nuovi materiali, l’anelito ad andare oltre il conosciuto e il condiviso e a sperimentare erano tratti ossessivi di entrambe le personalità. A causa di questa ossessione alcuni lavori di Leonardo decaddero presto. Jobs andò incontro a fallimenti tali che avrebbero messo fine alla carriera di chiunque non fosse stato Steve Jobs.

La perfetta ossessione

Un esempio ce lo fornisce Isaacson nella biografia di quest’ultimo. Racconta della messa in opera del NeXTCube nel 1986:

Non ci dovevano essere angoli ottusi a rovinare la purezza e la perfezione del cubo (il NeXTCube). Così, le fiancate dovettero essere prodotte separatamente, con stampi del costo di 650.000 dollari, da un’officina specializzata di Chicago. La passione di Jobs per la perfezione era completamente fuori controllo. Quando notò una minuscola riga nella scocca causata dagli stampi, una cosa che qualsiasi altro produttore di computer avrebbe considerato inevitabile, Jobs volò a Chicago e convinse lo stampatore a ricominciare da capo per eseguire il lavoro a regola d’arte.”

Di storie come queste ce ne sarebbero tante da raccontare.

Lo stesso Isaacson scrive a proposito del metodo di Leonardo nella pittura:

Era un perfezionista alle prese con sfide che altri artisti avrebbero ignorato, cosa che lui non poteva fare, e per questo depose i pennelli. Tale comportamento ebbe come conseguenza il fatto che non gli furono più assegnati incarichi per commesse pubbliche, ma è anche ciò che lo fece entrare nella storia come un ossessionato genio anziché semplicemente come un affidabile maestro della pittura… La Gioconda è il momento culminante di una vita spesa a perfezionare la capacità di operare nel punto in cui l’arte incontra la natura.”

Isaacson ha raccolto, durante le sue lunghe sessioni con Jobs per la biografia ufficiale, una confessione importante che non dubitiamo essere vera. Scrive, nell’altra biografia, quella su Leonardo:

Leonardo era l’eroe di Jobs. «Scorgeva la bellezza nell’arte come nell’ingegneria — disse Jobs — e la sua abilità nel combinarle era ciò che ne fece un genio.”

La frase ci può senz’altro stare.

Jobs lasciò che Regis McKenna, il pubblicitario della Apple, collocasse nella brochure dell’Apple II, un aforisma attribuito a Leonardo: «La semplicità è la massima raffinatezza». La pubblicità prodotta dai concorrenti non aveva mai avuto niente di simile nel suo arido tecnicismo.

Forse ispirò i pubblicitari IBM a individuare in Charlot la figura chiave di tutta la loro campagna per il PC-IBM. L’arte iniziava a nutrire il concetto di tecnologia. Questo approccio raggiunge lo zen nella campagna pubblicitaria della Apple “Think different”. Tra i geni scelti mancava però Leonardo, forse troppo lontano nel tempo.

Oltre l’indiziario

Ma tutti questi sono discorsi indiziari che valgono quello che valgono per una disciplina rigorosa come la storia.

In realtà, non si sa come e quando Steve Jobs sia entrato in contatto con l’opera e gli scritti di Leonardo. Alla National Gallery di Washington è conservata l’unica opera di Leonardo sul suolo americano, il Ritratto di Ginevra de’ Benci. Una piccola tavola quadrotta (38×36 cm), dipinta nel 1474 a 22 anni. Il dipinto ha già tutto lo stile del maestro di Vinci.

Nella collezione privata di Bill Gates, a Seattle, c’è anche il Codice Hammer, acquistato nel 1994 per 30 milioni di dollari (52 milioni attuali). Un affarone pari alla fama del fodatore di Microsoft. Ma, data la rivalità che separava Jobs da Gates, per la proprietà transitiva che agiva potentemente nella personalità del co-fondatore di Apple, è difficile pensare che egli si sia mai recato a visionare i 36 fogli del famoso manoscritto.

Jobs aveva visitato Firenze e vi aveva soggiornato per qualche settimana. La moglie, Laurene Powell, vi aveva studiato italiano e risieduto per vari mesi intorno a via Ghibellina. Ma di Leonardo a Firenze è rimasto poco. Jobs ha visitato saltuariamente anche Milano e, più continuativamente, Londra e Parigi. Probabilmente sarà andato al Louvre o alla National Gallery, più difficilmente a Windsor.

Il legame che potrebbe legare Jobs a Leonardo ha però una fonte meno indiziaria.

Robert Palladino

Il legame potrebbe essere Robert Palladino, frate trappista di origini italiane e docente di calligrafia al Reed College di Portland. Per un anno Steve Jobs, che aveva lasciato i corsi curricolari del Reed, si “imbucò” alle lezioni del professor Palladino.

Il Professor Robert Palladino all’opera

Quell’esperienza è stata una pietra miliare nella formazione di Jobs. Più volte lo stesso Jobs ha parlato della sua importanza non solo per la sua storia, ma per quella dell’intero personal computing.

Uno dei libri di riferimento di quel corso era il De Divina proportione del frate e matematico toscano Luca Pacioli che lavorò a Milano alla corte di Ludovico il Moro dal 1496 al 1499. Il manoscritto è ora conservato nella Biblioteca di Ginevra. Una copia a stampa in ottimo stato è alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.

Che Palladino conoscesse a fondo il lavoro di Pacioli è fuori discussione; l’arte della calligrafia moderna (cioè quella basata sui vettori matematici, che sono alla base dello stesso linguaggio Postscript e dei suoi surrogati) non può prescindere dall’opera di Pacioli.

Il frate di Sansepolcro, proprio nel capitolo XI del De Divina proprortione (Venezia, 1509, editore Paganino Paganini) dal titolo, De l’origine dele lettere de ogni natione, scrive un capitolo decisivo sulla calligrafia e sulla tipografia. In questo capitolo costruisce geometricamente le lettere dell’alfabeto elaborando il giusto equilibrio delle proporzioni nella costruzione delle maiuscole. A ogni lettera appone una didascalia che ne descrive le caratteristiche geometriche.

L’alfabeto di Pacioli

Due studiose del Laboratorio FDS del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano, Paola Magnaghi-Delfino e Tullia Norando hanno pubblicato un paper sullo studio delle lettere capitali del Pacioli.

La “G” maiuscola, con relativa didascalia, dal “De Divina proportione” di Luca Pacioli

Riportiamo volentieri questo passo del loro lavoro che spiega bene il metodo del matematico toscano:

“Pacioli inserisce nell’opera 24 tavole, di cui la prima rappresenta il profilo laterale della testa dell’uomo, mentre le altre 23 comprendono le lettere dalla A alla Y, comprese la K, la X e due diversi disegni per la O; non compare la U, sostituita dalla V, ed è assente la Z in quanto l’autore probabilmente considerava tale lettera un carattere greco.

Le lettere sono intagliate in legno e misurano 9,5 cm, tutte in neretto pieno. A differenza dei trattati precedenti, ogni lettera è accompagnata da una breve didascalia, che funge da commento. 

Le lettere di Pacioli segnano uno stacco decisivo rispetto ai caratteri che derivano dalle scritture manuali, infatti dal quadrato di base fuoriescono l’apice e i tratti terminali della O, le curve esterne del primo disegno della O, quelle della Q, i tratti terminali della V e della X”.

Nello stesso documento si possono visionare alcune lettere progettate da Pacioli. Qui si può vedere l’intero alfabeto con le relative didascalie di pugno dello stesso autore.

Pacioli e Leonardo

Luca Pacioli era amico di Leonardo e ne ammirava e anche ispirava la visione. Lo stesso Leonardo realizzò 60 illustrazioni di solidi geometrici per il De Divina proprtione (lo dichiara lo stesso Pacioli, nell’edizione a stampa).

Pacioli e Leonardo erano quasi coetanei (il primo nacque nel 1445 e il secondo nel 1452) e si incrociarono alla corte di Ludovico il Moro a Milano. La loro frequentazione fu assidua, preceduta dalla fama di entrambi e dalla reciproca stima.

Argante Ciocci, uno studioso di storia della scienza e cultore dell’opera di Pacioli a cui ha dedicato vari libri, in Ritratto di Luca Pacioli (pubblicazione edita dal Consiglio regionale della Toscana) ha spiegato molto bene il rapporto con Leonardo che va al di là dell’amicizia. Scrive Ciocci:

Il rapporto che lega il matematico di Sansepolcro e l’artista vinciano costituisce senza dubbio uno dei casi di studio più illuminanti per la comprensione del nesso fra dotti e tecnici che si venne a instaurare durante il Rinascimento. Il frate matematico, autore della Summa, e l’artista universale simbolo del Rinascimento costituiscono del resto una coppia culturalmente complementare.

Leonardo cerca nel matematico i fondamenti della geometria euclidea e un necessario ausilio didattico per l’accesso linguistico alla matematica classica, visto che per l’ “omo sanza lettere” l’ostacolo del latino era pressoché insormontabile. Luca Pacioli, da parte sua, vede nella “ineffabile sinistra mano” di Leonardo la migliore soluzione al problema di rappresentare i poliedri regolari e “dipendenti” nelle 60 tavole che costituiscono il necessario corredo visuale alla sua Divina proportione.

La mutua attrazione comincia ancora prima della loro amicizia. Leonardo, infatti, prima di incontrare il frate ha già acquistato la Summa de aritmetica geometria, proportioni et proportionalita, per 119 soldi, visto che quel testo, scritto in volgare, compendiava tutto lo scibile matematico da Leonardo Fibonacci in poi e costituiva la porta di accesso alla matematica degli antichi.

Il NeXTcube con l’avveniristico monitor (donazione Thesis al Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano).

Il NeXTcube

Bene, Palladino è il tramite tra Jobs e Leonardo, via Pacioli.

Palladino nelle sue lezioni di calligrafia, mai dimenticate da Jobs, trasmise al giovane creativo l’idea della proporzione come principio fondativo non solo dell’arte della calligrafia, ma anche del design.

Del resto il design non è niente di differente dalla ideazione e dalla costruzione di forme solide funzionali. E Jobs fu il primo a introdurre il design come componente fondamentale dell’usabilità e dell’estetica di un computer destinato all’uso individuale.

Tutti i prodotti ideati da Jobs portano questo imprint.

Ma ce n’è uno, in particolare, che sembra uscito proprio da un disegno di Leonardo per il De Divina proportione: Il NeXTcube. La scelta di questo solido come involucro per alloggiare i componenti di un computer non è certo frutto di un lancio di dadi da parte di Jobs e del team della NeXT.

Il NeXTcube era un cubo perfetto con i lati di un piede esatto (305 mm) di lunghezza e gli angoli perfettamente a 90 gradi. La forma del cubo poteva essere un’ottima scelta di design e anche di marketing, ma gli angoli perfettamente a 90 gradi erano un bel problema. Gli stampi dei case dei computer del tempo avevano angoli ottusi per facilitare il montaggio e l’estrazione delle schede.

Jobs decise che non ci sarebbero stati angoli differenti da quello retto a sciupare la perfezione del solido.

Naturalmente nessuna scheda in commercio aveva la forma di un quadrato da iscrivere nel cubo, così dovettero essere riprogettate tutte daccapo. Inoltre Jobs volle un involucro di magnesio ignifugo così da poter evitare ogni imperfezione derivante dalla produzione industriale del manufatto.

Anche l’interno, cioè la parte che vedevano solo i riparatori, doveva essere fatta a regola d’arte. Le viti, ridotte al minimo, avevano una placcatura che le mimetizzava, mentre l’interno della scocca era rifinita in nero opaco, perfettamente in sintonia con l’esterno.

Il NeXTcube Poteva funzionare a un’altitudine di 4500 metri, con il 90% di umidità e 50 °C sopra lo zero.

Altrettanto tormentata fu la messa a punto del monitor. Jobs volle un meccanismo di inclinazione da lui stesso progettato e poi brevettato. Questo meccanismo era tutt’altro che uno scherzo da fabbricare sopra il supporto elegantemente ricurvo che terminava con un cilindro dotato di terminature mobili per spostare l’oggetto con una lievissima pressione. Sembrava una delle ingegnose macchine ideate da Leonardo.

Alla fine il NeXTcube vide la luce. Cosa che non ebbe la soddisfazione di vedere Leonardo con il progetto del colossale cavallo in bronzo per il monumento equestre di Francesco Sforza.

Sembrava una sfida impossibile fonderlo e prima ancora trovare le 100 tonnellate di bronzo da versare nello stampo in creta. Impossibile non era un limite per Leonardo da Vinci, così come non lo era per Steve Jobs. Lo era per gli altri.

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