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Uso e abuso delle buzzword, le parole del potere

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Tempo di lettura: 4’. Leggibilità **.


Le parole come moda.

Avete mai fatto caso a quanta influenza possono avere alcune parole? Alla ripetitività a volte distorta e strumentale di un linguaggio che serve per esprimere nuovi concetti, ma soprattutto mettere in evidenza delle tendenze?

In inglese le chiamano Buzzword, parole d’ordine.

Forse per la maggior parte delle persone sono semplicemente modi di esprimersi impulsivi, che ripetuti costantemente divengono mode.

La pericolosità è che neanche ci rendiamo conto della facilità di come entrano nel nostro linguaggio comune, ribaltando la conoscenza del vero significato che esse hanno. Platone molti secoli fa, scrisse: “L’inesattezza del linguaggio non è soltanto un errore in sé stesso, ma fa del male anche alle anime.” (Platone, Fedone)

Le buzzword creano false associazioni di idee e parole, nell’immaginario collettivo.

Pensiero e parola sono strettamente collegati, con il linguaggio esprimo e descrivo il mondo che percepisco. Nella parola ho uno strumento per veicolare il mio personale messaggio e creare la realtà che mi appartiene. Ma siamo certi di usare correttamente il contenuto del linguaggio e di non farci “usare” dal suo suadente potere?

Sempre prendendo in prestito dal mio amato Platone, nei suoi scritti per curare l’anima, si legge: “ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altri parti del corpo stiano bene. L’anima, o beato, si cura con certi carmi magici che sono poi i belli discorsi, dai quali cresce nelle anime la saggezza.”

Una parola fin troppo di moda

Quindi per sconfiggere le nostre paure e nutrire la nostra anima, abbiamo bisogno di parole magiche. E se ai tempi di Mago Merlino, erano riservate a pochi eletti, oggi il potere di una parola come Resilienza, presa in prestito da un uso prettamente tecnico, è divenuta il balsamo lenitivo per sconfiggere le ansie quotidiane.

Personalmente, durante gli ostacoli della vita, ho sempre provato un certo fastidio, a sentirmi dire: “tu sei una donna forte”, l’ho percepita come una frase semplicistica, una pacca sulla spalla che ti frega. Nessuno di noi nasce forte o debole, è la volontà a migliorarsi, a mettersi in discussione, ad ammettere gli inevitabili errori, a cadere per imparare a rialzarsi, è la consapevolezza della fallibilità che ci rende “forti” agli urti della vita.

La parola “resilienza” è stata presa in prestito milioni di volte per evidenziare quanto una persona possa aver sofferto, subito danni ingiusti dalla vita, ma niente lo abbia spezzato. All’improvviso, per affrontare tutta la complessità che ci avvolge dalla nascita alla morte, una sola parola sembra avere il potere di trasformare l’essere umano in pietra dura.

Uscire da una tempesta, superare un ostacolo senza spezzarsi, reggere incondizionatamente bene senza nessuna crepa ogni urto della vita.

All’apparenza sembrerebbe la scoperta del secolo, come quando degli ingegneri  dimostrarono la proprietà meccanica che misura la capacità di un materiale di resistere a forze dinamiche, agli urti, assorbendo energia con deformazioni elastiche e plastiche.

La maggior parte dei vocaboli usati in campo scientifico (come possiamo attingere dal Oxford Latin Dictionary, Fascicle VII, a cura di P. G. W. Glare, Oxford University Press 1980, con traduzione italiana dell’Accademia della Crusca) ha un’origine latina: resilienza viene dal verbo resilire, che si forma dall’aggiunta del prefisso re- al verbo salire ‘saltare, fare balzi, significato anche di ‘saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, rimbalzare, ripercuotersi’, ma anche quello di ‘ritirarsi, restringersi e contrarsi. Il totale contrario del concetto di apertura alla vita, alla capacità di trovare le risorse che sono dentro di noi e che servono per affrontare il quotidiano con un positivo stupore, accettandone le inevitabili trasformazioni.

Oggi in una globalizzazione economica, può anche tornare utile aver inventato un tessuto che nonostante sia sottoposto a molte ore di uso, tornerà perfetto al suo stadio iniziale, e può tornare utile che ci siano oggetti che nonostante la loro caduta non si rompono in mille pezzi, ma torna anche comodo per sedare le coscienze durante un periodo di crisi, di paure e diciamolo, di totale incertezza umana. E il motto sia: tornerà tutto come prima, tranquilli!

Ed ecco venire incontro alle ansie dell’uomo che pensa e vuole tutto sotto controllo il rimedio perfetto: la resilienza, la capacità di resistere tornando ad essere nuovamente se stessi, senza che l’evento abbia minimamente scalfito la vita di chi l’ha subito. Ma allora essere resilienti non coincide con il concetto di trasformazione che un evento traumatico dovrebbe insegnarci, non coincide con la volontà e la preparazione di fare in modo che dati ostacoli non si presentino nuovamente. Se riusciamo a rimanere passivamente fermi e ci affidiamo alla resilienza, ricostruiamo noi stessi identici a prima.

Resilienza lenitivo della coscienza

Quindi la resilienza è l’antidepressivo per la nostra coscienza.

Se imparo ad usare il concetto viziato di resilienza, ho la certezza mentale di sapermi rialzare dopo una caduta. La vera gravità è che non serve nemmeno domandarsi il perché sono caduto, il resiliente non è responsabile degli eventi e non gli serve fare esperienza dell’evento.

Nessuno nasce infallibile, tutti noi conosciamo la storia del peccato originale e della cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva. Il nostro peccato e’ stato separarci, dividerci tra razionalità ed intuito, fino a negare la nostra complessità. Ma finché una cosa non la sperimentiamo, è per noi impossibile conoscerla veramente. Posso spiegarti che sapore ha il sale o lo zucchero, potrai fidarti di me, ma finché non sperimenterai il loro sapore, finché non avrai un’esperienza diretta non potrai dire di conoscerli.

La resilienza torna comoda come una panacea a chi non vuole cambiare, a chi costruisce un muro di cemento armato intorno alle proprie convinzioni e alla propria persona, praticamente alimenta il suo essere così di carattere e di volerci rimanere. La più alta forma di egoismo direbbe Socrate.

Una parola non alla moda 

Un tempo ci veniva insegnato a fare tesoro di ciò che ci succedeva, nel bene e nel male si imparava che inevitabilmente tutto ti trasforma.

Ma qui entra in gioco una parola che non è ancora divenuta di moda, forse non lo sarà mai, ma voglio credere che possa almeno incuriosire: è RESIPISCENZA.

La Resipiscenza è la comprensione, la consapevolezza del proprio errore, per lo più seguita dal ravvedimento.

La parola, dal lat. tardo resipiscentia, significa rinsavire, ravvedersi, riconoscendo l’errore in cui si è caduti, tornando al retto operare. Colui che si ravvede da un errore, si è dimostrato resipiscente.

La Resipiscenza ti fa pensare, ti fa mettere in discussione, ti da il coraggio di analizzare e di riconoscere le proprie responsabilità con onestà intellettuale. La Resipiscenza è la capacità di avere e mostrare responsabilità individuale e sociale degli eventi.

Questo proposito dovrebbe essere conosciutoed usato dai politici, dai manager, dai direttivi e dai singoli individui, per comprendere la capacità di cambiare, di migliorare, di correggersi e di imparare ad accettare gli errori, semplicemente ammettendoli. Non serve rimanere ciò che eravamo, rischiamo di essere riduttivi nei confronti della vita stessa, di non ammettere la fallibilità dell’essere umano, non voler dare possibilità a un cambiamento atto a costruire un futuro diverso.

Quante volte con sicumera sentiamo dire invece dai nostri governanti “Rifarei esattamente tutto quanto ho fatto!”.

Il miglioramento della vita dell’uomo dipende anche da un atteggiamento consapevole e responsabile.

Servirebbe un pensiero di resipiscenza in ognuno di noi, farebbe bene a una società disequilibrata che ha costruito un benessere psico-sociale illusorio e teme gli accadimenti naturali dello scorrere della vita.

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2 COMMENTS

  1. Al di là del linguaggio e delle parole di moda, la recente esperienza Covid 19 ha fatto cadere tanti miti. La cruda realtà ha evidenziato limiti che la società moderna aveva cercato di eludere. La proprietà di linguaggio aiuta di certo a esprimere con più immediatezza i messaggi voluti, ma la diversità delle lingue dimostra anche che, in una cultura, fondamentali permangono i concetti e i pensieri sottostanti.
    Le mode vengono e vanno e i vocabolari accolgono continuamente inglesismi e modi di dire sempre nuovi, la padronanza di linguaggio è importante che sia disponibile a tutti e coltivata con lo studio. La scuola (pubblica o privata non fa differenza) resta in questo il presupposto indispensabile per una organizzazione sociale che assicuri sempre cittadini attenti e presenti, a prescindere dal ceto di appartenenza.
    Il suffragio universale, quale conquista democratica, dovrebbe del resto corrispondere proprio a questo.

  2. Concordo pienamente. Inspiegabilmente alcune parole fanno presa e devo dire che nel caso specifico si tratta di un termine che al di là della profonda analisi compiuta, suona proprio disarmonico. La stessa cosa è accaduto al termine contaminazione, che dall’immaginario dell’orrore, è atterrato in campi come l’arte e la cultura in genere. La sua ombra atroce ormai affligge quanto dovrebbero donare armonia e bellezza. Una volontà nichilista, intrisa di falsa cultura, diventa padrona del nostro immaginario sempre più permeabile a ciò che ignora ma che sembra colto.

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