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L’economia di Lucignolo e quella di Pinocchio

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Pinocchio assiste alla morte di Lucignolo (ristampa anastatica dall’originale)
Tempo di lettura: 6’. Leggibilità: **.

Pinocchio e Lucignolo

Oggi che tutti parlano di cambio di passo, del bisogno di riacquistare normalità politica, economica, sociale attraverso la solidarietà nazionale e la leadership dei migliori, mi è tornato in mente un libro di venti anni fa di Marcello De Cecco, uno dei maggiori economisti italiani, scomparso nel 2016. Si tratta de L’economia di Lucignolo, Donzelli editore.

Esso raccoglie una serie di articoli pubblicati da De Cecco a cavallo del secolo sull’inserto settimanale di economia del quotidiano La Repubblica, dedicati alla spiegazione delle fragilità del nostro Paese, in controtendenza rispetto a certe prevalenti interpretazioni.

La metafora è chiara già nel titolo, puntando sulla figura del disgraziato amico di Pinocchio. Mentre questi da burattino di legno diventa bambino normale, salvandosi alla fine dalle sventure procuratesi venendo meno ai suoi tanti proponimenti, Lucignolo, attratto irrimediabilmente dalle apparenze del Paese dei Balocchi, morirà di fame e di fatica imprigionato nel corpo di un asino, costretto a spingere la macina del grano.

Fuor di metafora, De Cecco parla dell’indebolimento strutturale dell’economia italiana, attribuendola alla rottura del legame tra grande impresa e sistema educativo, il solo binomio capace di produrre, tramite la ricerca, le conoscenze tecnico scientifiche necessarie al progresso economico e sociale del Paese.

Dalla crisi della grande impresa italiana, privata e pubblica, è sorta infatti la crisi della scuola e specialmente dell’Università. Se non ci può essere domanda di laureati, non ci può essere nemmeno offerta, ci dice De Cecco. E la domanda di laureati in materie scientifiche, cioè la domanda di quelle conoscenze, non può venire se non dalla grande impresa.

Sintesi: l’affermarsi della pmi, del paradigma dei distretti industriali, di un’industria che riduce la quota di produzione di beni di investimento, non solo diminuisce la nostra quota di esportazione di capitale tecnologico nei paesi in via di sviluppo e ci rende nel medesimo tempo sempre più dipendenti dall’estero, ma produce un’involuzione nella domanda di capitale umano di maggiore qualificazione, deprimendo lo slancio verso l’innovazione tecnologica.

Egli impietosamente, ma anche provocatoriamente, scrive:

Ci siamo adattati a fare sedie, scarpe e stracci eleganti, rinunciando alla chimica, all’elettronica, all’aeronautica e ora persino all’industria dell’automobile. Ora siamo vicini al punto di non ritorno. Nei prossimi anni o ci si salva o s’imbocca una spirale che conduce a una nuova divisione dell’Italia. Che farà Pinocchio? Seguirà Lucignolo, come ha mostrato di voler fare negli ultimi anni, o rinsavirà trasformandosi da ciuchino in ragazzo normale?”

Insigni oppositori

Ovviamente l’analisi di De Cecco è molto più articolata e complessa di questa icastica conclusione. La sua visione non sembra però condivisa né a livello accademico, né sul piano politico-istituzionale. Ad essa viene contrapposto il modello trionfante della Terza Italia e delle eccellenze del Made in Italy, le quali proprio in quanto eccellenze non possono offrire se non contributi di nicchia. Si aggiungano gli ampollosi riconoscimenti tributati per anni al localismo bancario a supporto di questo mondo di piccoli, nel quale anche il modello della banca di prossimità esce sconfitto, come ci hanno mostrato le tante crisi bancarie di questi anni.

Tra questi trionfalistici riconoscimenti è da ricordare quello pronunciato nel 2010 al CUOA dal Governatore della Banca d’Italia di allora, oggi capo del Governo di salvezza nazionale, il quale, esaltando il Nordest come “area cruciale per l’intera economia italiana, …tiene a sottolineare che “a fronte di una maggiore varietà di prodotti e servizi offerti alla clientela, i grandi intermediari (creditizi, ndr) hanno un legame meno intenso con il territorio, che rappresenta invece uno dei punti di forza del tessuto di banche di dimensione media e piccola. L’ampia presenza di intermediari locali costituisce un aspetto peculiare del Nord Est, con un livello medio dei tassi di interesse più basso che altrove.”

A distanza di dieci anni, oggi in Veneto dominano i due maggiori gruppi bancari italiani. Giacciono ancora sui tavoli ministeriali le crisi di banche, osannate per anni come campioni di vicinanza ai territori di altre regioni.

La diminuzione della produzione industriale, il peso del lavoro precario e, da ultimo, del caporalato digitale, della disoccupazione alta e non comprimibile dei giovani, del Sud, delle donne, con la fuga all’estero dei più preparati sono altri effetti della nostra ridotta forza industriale.

Negli anni si è alimentata l’illusione di trovare nella miriade di attività del turismo (e suo indotto), arrivato a sfiorare il 15% del Pil, una soluzione generale. La produttività intanto scende a zero. Il costo del lavoro per unità di prodotto non può diminuire come sarebbe necessario, per renderci più competitivi. Le due controparti sostanzialmente deboli come la piccola banca e la piccola impresa non possono rafforzarsi a vicenda, per rispondere agli squilibri endogeni (la più lunga stagnazione economica) o esogeni (la pandemia).

Prima di quest’ultima ci facciamo coraggio, vedendo crescere un po’ le nostre esportazioni, ma il confronto con i paesi concorrenti ci annichilisce. I tassi di interesse a zero della BCE ci proteggono. Ma da che cosa, se non vengono associati a politiche di spesa in infrastrutture e altri investimenti pubblici e privati? È da ascoltare questa illuminante lezione di economia politica di Antonio Fazio, già Governatore di Bankitalia, sull’adesione all’Euro.

Nuove politiche o vecchi proclami?

Dai più recenti proclami sembra che l’Italia possa diventare presto green e digitale. Nulla si dice della dimensione delle imprese che dovrebbero realizzare questo secondo miracolo economico, dopo quello degli Anni Cinquanta e Sessanta. Siccome anche per il green e il digitale si tratta di sviluppare ricerca, dovrebbero essere la media e la grande industria a farsene promotrici. Sono da valutare positivamente alcuni recenti consolidamenti nell’industria informatica, grazie all’impegno dei fondi di capitale, quali le operazioni Nexi-Sia, Ion-Cedacri e le acquisizioni di Engineering.

Ma dovremo seguire anche le altre produzioni, dalla meccanica alla chimica, dal tessile, alla edilizia, alla siderurgia, per comprenderne il futuro?

Lascia invece un po’ perplessi il fatto che il capo del nuovo Governo parli del bisogno di rafforzare gli istituti tecnici, piuttosto che le Università. La ricerca di personale di questo tipo sembra più adatto alle esigenze immediate della pmi, piuttosto che della grande, con il suo fabbisogno di ingegneri e altri laureati in materie scientifiche. D’altro canto certi tentativi di sintesi rischiano di confonderci ulteriormente. Provate a capire qualcosa da questi passaggi della presentazione in Senato del suo governo.

“È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo…”

Poi Draghi parla di un fabbisogno di 3 milioni di diplomati di istituti tecnici (pari addirittura al 5% della intera popolazione italiana!) per il prossimo quinquennio, quando ne sforniamo a mala pena la metà, con un peso preponderante degli istituti a vocazione non strettamente industriale (leggi turistico-alberghiero e commerciale). Qui sotto i dati del Miur sulla scuola superiore degli ultimi anni. Egli afferma:

Fonte Ministero Università e Ricerca

“In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli ITIS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. E’ stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 md agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate.”

Continuare con l’enunciazione di generici obiettivi, ci fa perdere nelle brume delle buone intenzioni.

“La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici.”

Mentre la ricerca di base, appannaggio dell’Università, è citata come residuale, dell’altra ricerca, quella applicata, campo di elezione dell’impresa, manca il riferimento all’attore.

Torniamo al punto: Lucignolo, Pinocchio e la Fata Turchina 

Torniamo quindi al punto. La grande impresa italiana pubblica e privata è uscita pesantemente ridimensionata dalle vicende degli ultimi trent’anni. La media impresa non è decollata, come naturale evoluzione della piccola, per creare un continuum dimensionale, fonte di dinamismo tecnologico e di qualificazione occupazionale.

Ciò non è potuto avvenire anche perché il sistema finanziario non ha formulato strategie per il convogliamento di mezzi in grado di favorire gli accorpamenti tra imprese, perpetuando modelli tradizionali di banking, che hanno fatto esplodere contraddizioni e hanno provocato distruzione di ricchezza.

L’attività economica si è avviata massicciamente verso tipologie di servizi poveri e e di richiesta di manodopera a buon mercato e dequalificata.

Completano il quadro i ritardi della Pubblica Amministrazione sul fronte del rinnovamento professionale del suo personale, anche perché essa è continuamente spiazzata dagli spoil system generati dai ripetuti cambi di maggioranze di governo (otto negli ultimi dieci anni). Siamo al punto di dover invocare l’aiuto di grandi società di consulenza per compilare le slide del Recovery Plan da presentare in Europa, perché, si legge, la nostra burocrazia non sarebbe in grado di illustrare adeguatamente i programmi del governo secondo gli standard della comunicazione internazionale. No comment!

Se, come autorevolmente si propone, si punterà a promuovere massicci concorsi pubblici per l’assunzione di professionisti di elevata specializzazione tecnico-scientifica, bisognerà normativamente assicurare loro un quadro di stabilità, mettendone al riparo le carriere dalle bizzarrie della politica.

Per il Governo del Paese, dunque, non si tratta soltanto di indirizzare al meglio i fondi per la ripresa, affinché si costituisca una domanda aggregata in grado di orientare verso il green e il digitale, ma di rigenerare la struttura produttiva, finanziaria e della Pubblica Amministrazione, per allontanarci dal punto di non ritorno.

Occorrono una politica industriale, che non c’è mai stata, una politica bancaria, che punti a far nascere intermediari specializzati per il finanziamento della media impresa e investimenti pubblici in progetti di grande dimensione, per evitare di disperdere le risorse europee.

Ecco perché la favola di Lucignolo e di Pinocchio ci può aiutare a capire definitivamente chi siamo diventati in questi decenni e ciò che dovremmo riuscire a diventare, seguendo un percorso di indubbia complessità. Tenendo però a mente un’unica sostanziale certezza. Quella che non ci potrà essere nessuna Fata Turchina che, miracolosamente, ci sappia trasformare in un bambino normale.

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2 COMMENTS

  1. Come già fece nella sua intervista rilasciata a Rai Radio Uno Antonio Fazio, un economista e banchiere internazionale, Governatore di Banca d’Italia negli anni dell’ingresso dell’Italia nell’Euro. Unisci di nuovo le tue conoscenze economiche e le sue profetiche capacità di intuire uno scenario che potrebbe apparire sulle prime pagine di un prossimo futuro.
    Siamo nel dicembre del 2020: nei giorni della rottura tra il Colle e i Politici, causa la crisi istituzionale “del tandem PD-M5s”, cominciano gli ultimi 14 mesi della presidenza Mattarella, lo Stato Italiano è piombato in una profonda recessione, l’impatto del Covid19 sull’economia italiana. l’Italia che in Europa è fra i Paesi maggiormente colpiti in termini di contagi e vite umane perse, ha visto una perdita del PIL -8,8% nel 2020, le cause sono ovviamente il blocco delle attività sociali e produttive interne, ma anche la maggiore dipendenza della nostra economia dai servizi rispetto agli altri Paesi Europei, il debito pubblico cresce in misura inarrestabile: l’intero sistema finanziario e bancario appare enormemente vulnerabile.
    Solo un uomo sembra essere in grado di risolvere la crisi: Mario Draghi, economista e banchiere, un uomo con contatti al più alto livello nel mondo della politica e della finanza internazionale.
    Chi ha ammirato il crollo “gioco al massacro” del governo PD-M5s., troverà qui la stessa brillante combinazione di ardite previsioni e di verità economiche. Gran parte delle predizioni fatte da Antonio Fazio negli anni dell’ingresso dell’Italia nell’Euro si sono avverate. Sta ora ai lettori più attenti stabilire se il panico negli anni dell’ingresso dell’Italia nell’Euro sia un’opera di fantasia o un incubo fin troppo credibile.

  2. Eccellente articolo che mette in risalto alcune evidenti contraddizioni e incompletezze tra quanto proclamato dal “Premier della provvidenza” nel suo generico discorso d’insediamento e le problematiche reali in cui versa l’Italia.
    Alla luce del panorama socio-economico che si prospetta, in questo grave momento pandemico, appaiono molto più complesse le problematiche in campo, e molto più complicate le soluzioni da valutare.
    Rinunciando a fare dietrologie e augurando che le nuove “manovre” politiche possano apportare novità positive, non può disconoscersi che quel discorso al Senato aveva più i connotati del classico “coccodrillo” approntato da tempo (magari con un copia e incolla di aggiornamento per la vetustà insita alla sua stesura) e che giornalisticamente è sempre preparato anticipando i tempi.
    In ogni caso, il ricorso alle tante necessarie consulenze è un evidente riconoscimento di fatto di quanto occorre ancora fare, anche a livello programmatico, pur usufruendo degli studi e progetti già portati avanti dal precedente Governo.
    La situazione attuale, seppur aggravata da crisi pandemica internazionale, ha messo a nudo la debolezza della nostra economia e l’assoluta incapacità dei partiti politici nella gestione ordinaria del Paese.
    L’articolata esposizione di Daniele Corsini, in ogni caso, fornisce un quadro ampio su molte delle questioni attenzionate e che ci inducono a riflettere.

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