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Pensieri sparsi a margine del PNRR

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Prometeo lotta per liberarsi dalle catene, Nicola Sebastien Adam, 1762
Tempo di lettura: 4’.


Classe dirigente.

Uno spettro si aggira per il Paese. È costantemente presente, ma come oggetto di analisi politica e sociologica appare e scompare. Le sue apparizioni avvengono in particolari circostanze, essendo evocato come causa dei nostri mali, soprattutto quando si fanno piani di risorgenza.

Si sostiene che sia la mancanza più grave tra tutte quelle che ci indeboliscono. Mette a rischio la nostra capacità di uscire dal vicolo cieco del declino. Si accompagna ai toni della rievocazione e del rimpianto del passato.

La questione cui ci riferiamo è la mancanza di una classe dirigente adeguata, cioè di personalità in grado di incarnare al più alto livello le capacità tecniche e quelle politiche necessarie per superare i problemi del paese.

Il primo tipo di competenze serve per inquadrare i problemi nella loro complessità, il secondo per attuare soluzioni di interesse generale.

È così che le rievocazioni ritornano alla classe dirigente degli Anni Trenta (residuo di quella liberale giolittiana e della nuova, all’epoca, classe fascista) e degli Anni del dopoguerra e del miracolo economico (residuo della classe dirigente del periodo fascista e della nuova, all’epoca, classe democristiana). Alla fine della galleria, vengono citate alcune personalità degli Anni Novanta, dipinte con toni più sbiaditi e controversi. Dopo di che si cade nel vuoto.

Anche un recente lungo articolo di Giuseppe De Rita sul Corriere Economia compie questo percorso a ritroso, elencando le individualità che nel tempo passato hanno saputo coniugare competenze tecnico/culturali e competenze politiche. Da Gentile a Croce, da Beneduce a Menichella, da Mattioli a Saraceno, da Einaudi a Carli, a Ciampi.

Altro tema caro all’opinionismo storico sono le vicende di alcuni imprenditori (su tutti Adriano Olivetti e Enrico Mattei) cui si attribuiscono grandi visioni andate però irrimediabilmente disperse. Altre figure sono meno, diciamo così, condivise (Raul Gardini), ma forse hanno avuto grandi idee industriali anche loro, per quanto finite male.

Il rimpianto delle occasioni fallite o perdute è una costante nella nostra storia industriale. Il nostro è un paese di innovatori che spesso non ha saputo sfruttare le opere del proprio ingegno, per poca lungimiranza del contesto o indisponibilità di risorse. Dalle telecomunicazioni alla Chimica, dalla Fisica alla Elettronica, dalla Informatica alla Comunicazione. Il nostro vittimismo ci fa dire che ci sono state sottratte.

Non è proprio così. La cultura d’impresa, della grande impresa, ci è venuta via via a mancare e abbiamo preferito la mano visibile del debito pubblico per sanare ogni vero o presunto conflitto di classe o di interesse. Abbiamo beatificato il “piccolo è bello” e il localismo, che hanno cambiato il collocamento del paese nel contesto internazionale.

La politica e l’impresa

Quando è che questi argomenti riemergono? Di fronte ai grandi progetti ai quali affidiamo il Rinascimento/Risorgimento/Resurrezione che dir si voglia del Paese.

Il PNRR è presentato come l’ultimo treno, ma l’impronta miracolistica-messianica (le sei parti in cui è suddiviso si chiamano Missioni) è talmente forte che la nostra razionalità e’ portata a vacillare.

È un terreno politico-mediatico particolarmente fertile per nuove (o vecchie) parole d’ordine: discontinuità, coesione, senso dello stato, nuovo rapporto tra privato e pubblico, fine degli interessi di parte, legalità. E poi innovazione, transizione, trasformazione, evoluzione, digitalizzazione, modernizzazione, occupazione, generazione (futura), inclusione. Ci si spinge fino ad adombrare l’obiettivo antropologico dell’italiano nuovo, per un ideale rifondativo dei suoi caratteri etici.

I dubbi vengono dalla politica che utilizza divisioni e opportunismi, per operazioni di acquisizione del consenso. Negli ultimi dieci anni si sono succeduti otto governi di ogni possibile alleanza politica. Già si dice che quello in carica avrà nella migliore delle ipotesi un’orizzonte temporale di un anno e mezzo. Eppure il PNRR dovrà essere completato entro il 2026, pena la interruzione dei fondi europei. Come si concilia questa prospettiva con la credibilità del Piano medesimo?

Poco si dice sul ruolo dell’impresa, intendendo soprattutto la media e la grande e meno ancora si dice delle banche.

Il peso del rilancio affidato al settore turistico-culturale e del Made in Italy ci farà restare nel novero delle principali economie del mondo? Il processo di concentrazione in atto nell’industria bancaria rallenterà i benefici della concorrenza in settori innovativi che coniugano tecnologia e finanza? Torneranno a crescere gli investimenti privati?

L’intreccio dei provvedimenti di spesa a sostegno dell’economia con la realizzazione delle riforme, che hanno sollevato da sempre potenti e vincenti ostilità, complica la situazione. E non è solo questione di recuperare la reputazione perduta presso i nostri concorrenti europei, poggiando sul carisma del più noto dei tecnocrati. Della reputazione ritrovata, saremo riconoscenti al donatore?

Mai visti tanti soldi. Se non il mondo, l’Europa ci guarda. Gli altri paesi che fanno nei loro PNRR, anche se nessuno di essi li chiama così? Non sarebbe utile saperlo fin d’ora per capire la nostra capacità di integrazione nel e di differenziazione dal contesto internazionale, grazie a tutti i progetti che vogliamo realizzare?

Resilienza ovvero non ci mancava che la psicologia

La resilienza, termine usato solo nel progetto di Recovery all’italiana, è parola tratta dalla psicologia e indica “la capacità di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità”. In altre parole la resilienza serve a tornare al punto in cui eravamo prima delllo shock pandemico non a rinnovarci. Siamo resilienti o innovatori? Non è la stessa cosa.

Noi più pragmaticamente intendiamo la resilienza come la nostra superiore capacità di adattamento, in senso più opportunistico che darwiniano. Si può essere rigidi e duttili, allo stesso tempo. Si può essere tutte e due le cose.

Ancora tornano in evidenza i nostri caratteri che gli altri popoli non capiscono o addirittura si permettono, ahi loro, di disprezzare.

Vedranno presto di che pasta siamo fatti! Si dovranno ricredere. Ci porteranno ad esempio! Un paese allo stremo, che si rialza. Che si ripresenta con una classe dirigente nuova, di tutto rispetto. Che si mette in giuoco e ci mette la faccia! Tutto disinteressatamente! Siamo ai confini del Mito. Siamo il mito italico di Prometeo che si libera dalle catene nelle quali si è imprigionato da sé stesso e da tempo. Sarà così?

Ecco la differenza con la storia e le storie delle passate. Oggi possiamo verificare in diretta, senza aspettare gli studi e le rievocazioni, con la sottile nostalgia che li accompagna.

Abbiamo la storia davanti a noi! Anzi viviamo nella Nuova Storia d’Italia e possiamo toccarla con mano!

La carestia progettuale e da classe dirigente è finita. Quindi se proviamo a descrivere il tutto come un sostanziale atto di fede, nessuno potrà accusarci di disfattismo.

Un nuovo credo

Credo nelle riforme della giustizia e della Pubblica Amministrazione, nel miglioramento della sanità, nel rilancio della scuola, nel formare il cittadino fiscalmente corretto.

Credo nelle grandi opere infrastrutturali, nella sconfitta delle mafie e nella fine della corruzione, nella transizione alla economia circolare e a quella digitale.

Credo nella concorrenza, tra le banche in primo luogo.

Credo nella soluzione della questione meridionale.

Credo anche nella Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria! E in tutto ciò che è contenuto nelle quasi trecento pagine del PNRR.

Credo infine nel battesimo del Piano da parte della Commissione Europea e nella sua saggezza e tolleranza davanti ai primi scostamenti e cedimenti.

E non vengano in mente a nessuno i cartografi del racconto di Borges, i quali, dopo aver realizzato le più dettagliate mappe del Regno, grandi tanto quanto la sua reale estensione, le abbandonarono a se stesse, facendole andare a brandelli.

Vi è la certezza che questa volta sarà diverso. Come diceva Tertulliano, credo quia impossibile.

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1 COMMENT

  1. Nell’articolo gli obiettivi prefissati dal piano hanno come “parole d’ordine: discontinuità, coesione, senso dello stato, nuovo rapporto tra privato e pubblico, fine degli interessi di parte, legalità. E poi innovazione, transizione, trasformazione, evoluzione, digitalizzazione, modernizzazione, occupazione, generazione (futura), inclusione. Ci si spinge fino ad adombrare l’obiettivo antropologico dell’italiano nuovo, per un ideale rifondativo dei suoi caratteri etici.”
    Come direbbe Marzullo, mi faccio una domanda e mi darei anche una risposta.
    Come possono dei burocrati, politici, pseudosindacalisti, lobbisti o faccendieri e chi più ne ha più ne metta, che hanno un’età media avanti negli anni, a capire queste cose, visto come sono concentrati a mantenere il potere comunque e sempre, occupando poltrone, scambiandosi ruoli e posti con le “porte girevoli”, escludendo in tutto questo quelli che sono gli eterni giovani? (Intendendo per giovani la gente comune, spesso emarginata; quella che abita spesso le periferie, che rimangono esclusi dalle conoscenze utili, che non può accedere alle scuole private e ai quali sono precluse opportunità perchè raramente collegate al solo merito).
    Nutro dei seri dubbi e, in tempo socio-economici non normali, non mi suscita ilarità ritrovarmi oggi a pensare di essere amministrato da quelli che in tanti definiscono le menti e le mani dei “Migliori”. Impegnati in un PNRR sconosciuto a tanti e votato pressochè al buio. E dire che una volta ai draghi delle favole si riusciva a far spurare fuoco. La classe politica invece appare ancora disgiunta dai problemi del paese, si accalora nell’indirizzare il consenso, senza mai però dire chiaramente ai suoi elettori “per farne cosa”. Sigh!

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