Home Imprese&Lavoro Thesis (1986-2021): storia di una start up ante litteram

Thesis (1986-2021): storia di una start up ante litteram

1837
0

Buon inizio settimana. Oggi spero di non annoiarvi troppo con qualcosa di personale. Io non posso sottrarmi. Voi, se volete, sì. Intendo raccontarvi una microstoria come quelle che piacciono a Carlo Ginzburg, autore, tra altre cose bellissime che ha scritto, di due piccoli capolavori, due microstorie: Il formaggio e i vermi (Einaudi, prima edizione 1976, solo cartaceo) e Indagini su Piero (Einaudi, 1981, ahimè esaurito). Forse sarebbe il momento di ristamparli, vero Einaudi? A Ginzburg poi non dovrebbero neanche mancare le opportunità.

Sono certo che questa piccola storia piacerà senz’altro a Giulio Sapelli, pioniere, in tempi non sospetti, degli studi italiani sulla storia dell’impresa. Come non ricordare il suo lavoro del 1990, L’impresa come soggetto storico.

Il karma c’è

Il 30 giugno 2021 è stato l’ultimo giorno di Thesis, la società che io e altre tre persone abbiamo fondato 35 anni fa, nel 1986.

Quando, nel luglio di quell’anno, ci siamo trovati nello studio notarile per l’atto costitutivo di Thesis, a un certo punto della lettura dello statuto il notaio ci chiede: «che data di termine dell’azienda devo mettere?». Domanda giusta: tutto ha un termine. Ci siamo guardati un po’ sorpresi e interdetti; nessuno ci aveva ancora pensato. Poi uno di noi se n’è uscito con un “2020”. Quando si dice il karma.

Porre fine a un’esperienza come quella di Thesis è come strapparsi il cuore dal petto, ma avrebbe potuto essere anche un momento a suo modo “gioioso”… da missione compiuta.

Invece è stato un momento tristissimo perché abbiamo perduto una persona che nel 1986 era nello studio di quel notaio, una persona che rappresentava l’anima profonda di Thesis. Era la sua Pucelle d’Orléans.

Penso che solo la musica di Bach possa renderle l’omaggio che merita.

Quando neanche c’era il concetto

A tutti gli effetti Thesis è stata una “start-up” prima del tempo delle “start-up”. Innovava furiosamente, abbracciava nuove tecnologie, lì al punto di intersezione tra tecnologia e cultura, incubava nuove idee e faceva nascere nuove società, lavorava con Steve Jobs… ed era guidata da una donna. Come sarebbero state guidate da una donna tutte le start-up successivamente avviate da Thesis, goWare compresa. Ho perso il conto di quanti professionisti Thesis abbia contribuito a formare nel mestiere dell’editoria tradizionale e della nuova editoria.

Thesis ha sempre avuto un team (grafici, editor, sviluppatori, tecnologi, amministratori) fuori dal comune, specialmente negli ultimi anni quando si sono presentate situazioni difficilissime, rese poi insostenibili dalla pandemia, nonostante il supporto e la vicinanza anche dei clienti.

Operativamente sono stato molti anni lontano da Thesis: 20 anni. Eppure ricordo molto bene le sue origini che adesso, abusando della vostra pazienza, vi voglio raccontare. So che non riuscirò a essere conciso. Impossibile esserlo con i ricordi: per restare in casa Ginzburg, scrive in proposito Natalia (cito a memoria): “A un certo punto della vita, ci si accorge che ci siamo innamorati dei nostri ricordi”. Forse troppo.

E ora?

Thesis è stata fondata nel 1986 da quattro giovani che provenivano dall’esperienza del movimento studentesco, delle radio libere e dei diritti gay.

Nella scelta di dare vita a un’impresa, vedevano, confusamente, il modo di dare una “non-sapevano-ancora-quale” continuità alle precedenti esperienze di vita, oramai parte in una stagione che volgeva al termine.

Uno sbocco, quello dell’intraprendere, non del tutto isolato nel panorama giovanile dell’epoca, segnato dal fenomeno del cosiddetto “riflusso nel privato”. Ma in questa scelta sopravviveva, magari sottotraccia, anche una valenza ideale.

Lo stesso Steve Jobs, co-fondatore di Apple, ha spesso sottolineato la continuità tra la controcultura californiana degli hippie e la scelta di fare qualcosa, come per esempio un’impresa, che innovasse gli stili di vita, dando così un seguito, sia pure incerto, ai valori dell’esperienza precedente.

Arriva il personal computer

“La mia generazione non ha potuto partecipare alla lotta per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam, ma ha creato il Macintosh”.

Con queste parole del 1986, Steve Jobs (intervistato da Joe Nocera, per Esquire) è andato al nocciolo della questione: il personal computer ha davvero cambiato il mondo. In meglio? In peggio? Giudicate voi.

Un saggio di Theodore Roszak dal titolo Da Satori alla Silicon Valley spiega bene quale humus culturale abbia modellato la forma mentis della gente della valle dei computer dove sugli alberi, al tempo di Steinbeck, crescevano le prugne e, oggi, crescono le idee e soprattutto i soldi.

Fu proprio l’arrivo del personal computer, nella visione di S. Jobs, che motivò i quattro fondatori (ai quali se ne aggiunse subito un quinto) di Thesis a intraprendere un’attività che ponesse al centro il personal computer, un oggetto che poteva davvero cambiare il modo di lavorare e democratizzare tutta una serie di ambienti che si erano mostrati impermeabili alle esperienze della contestazione giovanile e del post-sessantotto.

Il grande balzo della tecnologia

Nel 1977 apparve l’Apple II. Nel 1981, fu presentato il PC IBM, cui seguirono immediatamente i PC compatibili. Nel 1984, iniziò la commercializzazione dei Macintosh e, l’anno successivo, al rivoluzionario computer dalla faccina sorridente, fu affiancata la Laserwriter, una stampante che, grazie al linguaggio Postscript, era in grado di riprodurre pagine di qualità tipografica con caratteri a spaziatura proporzionale. Nel 1987 la Linotype rense disponibile per la Laserwriter 5 famiglie di caratteri della sua storica library, preinstallati sulla stampante.

Nello stesso anno, una piccola “software house” di Seattle, la “Aldus corporation” (prendeva il nome da Aldo Manuzio – c’è sempre un italiano tra i piedi), rilasciava PageMaker, un software visuale per impaginare testo e grafica. Nel 1983 e nel 1984 Microsoft lanciava Word, un programma evoluto di videoscrittura per il sistema operativo Ms-Dos e per il Mac. La versione per Windows arriverà solo nel 1989.

Verso la computer graphic

Nel 1987 Adobe, una software house dal futuro brillante fondata da due tecnologi provenienti dallo Xerox Park di Palo Alto, rendeva disponibile Illustrator per il Mac, un programma di disegno per creare grafica vettoriale a due dimensioni, riproducibile con una stampante laser. Sempre nel 1987 Quark, una software house di Denver, lanciava Quark X-Press 1.0, un programma d’impaginazione versatile che si poteva accrescere con funzioni di terze parti.

Nel 1991 arrivò quello che mancava per portare le nuove tecnologie nell’editoria professionale dei libri e dei giornali: al Seybold di New York la Linotype presentò la Linotronic 300, una fotounità basata sul linguaggio Postscript in grado di produrre pellicole di stampa a 2400 dpi di risoluzione, lo standard della carta stampata.

C’era praticamente tutto quello che serviva perché succedesse qualcosa di grosso. E accadde.

Il Desktop publishing

Tutto questo dette origine a un fenomeno epocale che avrebbe rivoluzionato l’intera industria della stampa e della grafica, il Desktop publishing, cioè il complesso delle tecnologie finalizzate alla scrittura, all’archiviazione e alla produzione di documenti e grafica, in qualità tipografica, mediante personal computer.

Questa tecnologia andava ben oltre il lavoro d’ufficio e interessava tutti i settori che avessero necessità di comunicare, pubblicare, diffondere e distribuire contenuti. Tra questi: editori, università, pubblica amministrazione, associazioni, industria culturale in generale e industria della formazione in particolare.

Chiunque poteva avere una tipografia in casa, ammesso che sapesse fare quel mestiere difficilissimo. Furono proprio i tipografi a dar vita a uno dei primi sindacati. Se non conosci il mestiere, la tecnologia non serve a nulla.

L’idea di Thesis

L’idea di Thesis era quella di diffondere l’uso della tecnologia emergente del Desktop publishing nel mondo dell’editoria personale e professionale. I fondatori venivano da esperienze disparate e avevano competenze differenti. Nessuno di loro aveva però esperienza del settore editoriale o tipografico. Fu quindi subito una enorme sfida per il gruppo e per le singole persone.

Imparammo facendo, e soprattutto sbagliando, nel nostro ingenuo “missionarismo” tecnologico. Le ricadute della tecnologia sono una cosa complicata. Ci voleva piuttosto una spinta gentile che una campagna napoleonica. La gente, all’epoca, percepiva la tecnologia come un minaccia, un cambiamento che l’avrebbe travolta. Ci vollero anni per rompere il soffitto di cristallo. Almeno cinque.

Alcuni dei fondatori di Thesis lasciarono un posto di lavoro stabile e una carriera sicura per dedicarsi alla nuova avventura. L’impresa si finanziò con i loro risparmi, le liquidazioni, la vendita di beni di proprietà e le garanzie personali alle banche. Le rispettive famiglie sostennero l’iniziativa, ma senza troppo entusiasmo. Avrebbero preferito un posto fisso per i loro ragazzi.

La scelta del nome

La scelta del nome, ricordo, fu un travaglio non da poco. Nessuno voleva un nome che richiamasse un’attività che neppure sapevamo quale fosse. L’attività l’avremmo messa nel payoff. Il rapido succedersi delle tecnologie avrebbe potuto rendere il nome rapidamente obsoleto. Fu subito esclusa anche l’opzione di una denominazione geografica o che fosse un acronimo dei nomi dei fondatori. Anche se “Firenze” sarebbe stato un ottimo brand.

Il nome doveva essere breve, spendibile in più contesti linguistici e facilmente memorizzabile. La scelta cadde su “Thèsis”, un nome che deriva dal greco antico (ϑεσις), adottato dal latino e passato tale e quale nell’inglese, con varianti minime in tutte le principali lingue. L’accento grave (successivamente eliminato) sulla “e” doveva garantire la sua corretta pronuncia.

Inoltre la denominazione faceva un riferimento indiretto, ma percepibile, a quello che all’epoca si reputava essere uno dei mercati di riferimento della nuova “start-up”, l’università e il mondo della cultura. Il primo payoff fu “videoscrittura ed elaborazioni dati” a cui ne seguirono molti altri come “editoria elettronica”, “editoria & informatica”, “agenzia letteraria” ecc.

Si ricorreva anche a vari e differenti payoff per individuare le differenti linee di prodotto e i servizi offerti dalla società che, con nostro stupore, variavano come il tempo a Londra.

La scelta del logo

Si decise di creare anche una forma grafica da affiancare alla denominazione della società in modo che ne risultasse un’unità visuale inscindibile, alla quale associare, quando necessario, i vari payoff.

Lo sviluppo del concept del logo in forma visuale fu affidata al grafico fiorentino Marco Rossi che, pur privo di una conoscenza specifica della nostra attività, era però una persona attentissima ed aperta.

Per la denominazione fu scelto un carattere “san serif” (che ritenevamo più moderno del serif), a lettere maiuscole, ben spaziato, leggermente corsivizzato (uno stile che successivamente avremmo eliminato) e in nero pieno. La definizione della forma grafica del logo si orientò verso una margherita stilizzata coi petali a spessore calante da sinistra verso destra.

Perché una margherita stilizzata? Come accade spesso, fu il risultato di un certo malinteso. Il grafico Marco Rossi aveva ricevuto un briefing molto dettagliato dai fondatori e uno dei suoi punti centrali era la scrittura a video. All’epoca si tendeva ad associare questa modalità all’ultima generazione di macchine da scrivere Olivetti che usavano una testina a margherita per imprimere i caratteri sulla carta.

Fu probabilmente questa olivettizzazione del nostro lavoro, peraltro non del tutto appropriata, che portò il grafico a ideare quella forma per il logo. Una forma, però, che subito convinse i fondatori per la sua semplicità, la sua essenzialità e la sua estetica minimalista.

La fortuna di questa forma è stata grande. Per esempio la si può ritrovare ancor’oggi nell’icona del “loading” in molti sistemi e applicazioni.

A sinistra il logo originario di Thesis (1986) con la margherita stilizzata, a destra la “loading wheel” dell’iPhone.

Bene; a questo punto eravamo pronti a partire, anche se accadde subito qualcosa di imprevisto. Ma questa è davvero un’altra storia.

Prima di andare

A proposito di addii. Oggi, 5 luglio, è l’ultimo giorno di Jeff Bezos come CEO di Amazon. Al suo posto arriva Andy Jassy (53 anni). Bezos si dedicherà alla colonizzazione dello spazio. Inizia subito. Insieme al fratello Mark e a un passeggero ancora anonimo, che ha sborsato 28 milioni di dollari per esserci, sarà catapultato a bordo della navicella Blue Origin, di sua proprietà, per pochi secondi oltre la linea di Kármán, l’origine dello spazio.

Greg Bensinger, che da oltre 10 anni copre Amazon per il NYT, e della quale parla in termini molto laconici, ha scritto: “Mentre Bezos fluttua nel cosmo, la questione che ci rimane è quella di riuscire a riportare Amazon sulla terra”. Un vero guastafeste! Ma Bezos non è il proprietario del “Washington Post”?

Noi gli auguriamo buon viaggio con questo classico di Elton John, re-immaginato dal regista iraniano ed esule Majid Adin.

Aggiornamento

Il codice sorgente del web in Objective C scritto da Tim Berners-Lee e autenticato con un NFT (cfr. nostro post), è stato battuto da Sotheby’s per 5,4 milioni di dollari. L’offerta di un anonimo compratore ha stabilito il nuovo record per questo genere di collezionabili. Il precedente era detenuto dal primo tweet di Jack Dorsey, un NFT battuto per 4,6 milioni di dollari sempre da Sotheby’s.

(Post brillantato da Tiziano Tanzini che nel 1986 viveva già da otto anni in Germania e non c’era per chiedergli soccorso).

Previous articleDon Lorenzo Milani per il risveglio della coscienza collettiva europea
Next articleLa deflazione delle banche italiane durante la pandemia

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here