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Sepoltura del Monte e nuovo banking in Toscana

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Siena, Sede della Direzione Generale del Monte dei Paschi
L’epitaffio finale

In un articolo su Il Foglio di questi giorni, Ignazio Angeloni ripercorre con mirabile sintesi la storia degli ultimi trent’anni del Monte dei Paschi, per esporre una serie di riserve sull’operazione che si va preparando, preceduta dall’elenco degli errori e degli appetiti senza fine che hanno accompagnato la lunga agonia della Banca più antica del mondo. È un atto di accusa che tocca la politica, i sindacati, i vertici aziendali, le Autorità di vigilanza italiana ed europea, per le contraddizioni e i cedimenti succedutisi in questi anni.

Oggi, dice Angeloni con benevolenza, al ministro Franco, catapultato in mezzo all’epilogo della situazione “senza averne vissuto il pregresso né avervi personalmente contribuito, spetta comprensione e solidarietà”, ritrovandosi la Banca, dopo quattro anni dall’ultimo intervento pubblico, nella condizione di avere ancora “un modello di affari e una struttura dei costi non compatibili col mercato”.

È l’epitaffio da scrivere sulla sua tomba, con la differenza, rispetto al passato, di dover trovare rapidamente la soluzione definitiva. Il tempo è irrimediabilmente finito! La questione però non riguarda più il Monte, ma Unicredit e il contribuente italiano, che tra oneri già sopportati e preannunciati, e al netto della tosatura praticata sui risparmiatori con il burden sharing, si sarà accollato alla fine della fiera almeno un paio di decine di miliardi di perdite. Il Ministro, al riguardo, non riesce a fare calcoli precisi, stante le condizioni ancora aperte dell’accordo con Unicredit.

Le dichiarazioni di voler salvaguardare il marchio e preservare una politica territoriale soprattutto adatta alla regione di maggiore presenza della Banca morente possono non essere coerenti con le sinergie che la Banca subentrante dovrà ricercare, integrando la parte che rileverà nel proprio disegno strategico.

D’altro canto la questione della stabilità finanziaria, precisa opportunamente Angeloni, quale obiettivo di interesse sistemico non riguarda solo la ordinata (e costosa) sepoltura del Monte, ma anche il futuro della Banca interveniente, sul quale la BCE non potrà certamente glissare nel rilascio delle autorizzazioni di competenza anche per certe sue discrasie. Qui un articolo di pochi mesi fa che ne discute.

Futuro bancario della Toscana

L’operazione ora prefigurata, che fa sparire la banca che in Toscana detiene una quota di mercato del 14%, incentrata sulle attività al dettaglio per famiglie e piccole imprese, non potrà dunque non provocare scossoni tra la clientela. Le incertezze, i condizionamenti e i tempi nella gestione della crisi hanno contribuito a ritardare l’intero processo di ammodernamento del banking regionale. È anch’esso un danno sistemico di cui non si parla, su cui Governo e Autorità dovrebbero riflettere.

Ora, con la sparizione del Monte in Unicredit, si confronteranno sul territorio i due maggiori intermediari italiani, che a colpi di vendita di sportelli ad altre banche dovranno contenere gli impatti sulla concorrenza. Di recente è capitato a Intesa a doverne cedere a BPER, dopo l’incorporazione di Ubi, che a sua volta era intervenuta per rilevare attività e rete dal fallimento della localissima Banca Etruria. La catena non ricorda per un attimo la canzone di Angelo Branduardi Alla fiera dell’Est, un topolino mio padre comprò?

Questo traffico di sportelli (e loro addetti) richiamano anche alla memoria le anime morte di Gogol e stupisce un po’ che lo sportello tradizionale, oramai visto come fonte di costo, piuttosto che come modalità di penetrazione e presidio del mercato, sia ancora utilizzato come metro di misura del grado di concorrenza.

Quanto ai clienti, sballottati da una banca all’altra, da uno sportello all’altro, da un gestore della loro posizione ad un altro, debbono non solo adattarsi a nuove prassi, ma sottostare anche alla rivisitazione delle linee di credito, che con tutta probabilità si tradurrà in una loro decurtazione. La tanto sbandierata customer care, come driver di qualsiasi policy commerciale moderna, esce un po’ malconcia da un contesto del genere, in cui fa premio il contenimento del rischio piuttosto che la ricerca di nuove fonti di ricavo e di arricchite relazioni di clientela.

D’altro canto, la situazione del banking locale è abbastanza fragile, per surrogarsi, anche in piccola parte, ai bisogni finanziari della clientela che decidesse di migrare dal Monte-Unicredit. Ci sono crisi ancora irrisolte, intermediari tradizionali troppo piccoli per dare garanzie di offerta adeguata di servizi, peculiarità bancarie di incerto futuro.

Si tratta in ogni caso di modi convenzionali di fare banca, dato che gli investimenti per il loro rinnovamento sono rimasti contenuti, segnando un ritardo notevole di natura tecnologico-finanziaria. Numerosi sono i report che segnalano poi condizioni di arretratezza nell’utilizzo del digitale nelle attività economiche toscane, che la condizione del sistema bancario non ha certo contribuito ad allentare, spingendo per migliorare il livello di efficienza delle imprese clienti sotto questo essenziale profilo anche per competere a livello internazionale.

Scenari possibili

Ci sono spazi di mercato per un nuovo banking regionale, al di fuori del contesto di mercato avanti descritto, che almeno possa manifestarsi come prime indicazioni di tendenza?

Indico alcuni scenari, nei confronti dei quali vi potrebbe essere appeal da parte di investitori (venture capital, fondi di investimento, la stessa finanza pubblica). Cito anche come potenzialmente interessate le ex fondazioni bancarie, in funzione di catalist e di azionisti di minoranza di banche e altri intermediari finanziari, ricordando che la Toscana è la regione che ne annovera il maggior numero (ben 11), tutte dotate di mezzi.

Ovviamente è un contesto di biodiversità che deve fare i conti con la dimensione, per poter esprimere forza di competitor verso le banche tradizionali. Ma la capacità di sfruttamento di innovazioni regolamentari (la Psd2), della tecnologia (le API) e la messa a punto di processi integrati nell’open banking possono far procedere con rapidità nell’offerta di nuovi servizi finanziari, attirando capitali.

In sintesi, potrebbero svilupparsi

a) forme di aggregazione, anche tramite partnership partecipative e/o commerciali, tra intermediari finanziari specializzati (nei pagamenti, nella concessione di finanziamenti, nella intermediazione mobiliare, nelle assicurazione) e operatori tecnologici e fondi, per proporre processi integrati di pagamento, di credito, di gestione del risparmio. Nella proposizione di questi modelli, sta assumendo rilievo il ruolo dei mediatori creditizi, ai quali fanno capo ampie basi di clientela, avvicinate nello sviluppo delle reti commerciali per conto delle banche, che ora le offrono ponendosi al centro di nuove iniziative;

b) iniziative centrate su riconosciuti valori di interesse generale, come la tutela ambientale, la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, la preservazione del territorio e la inclusione sociale, con la offerta di strumenti finanziari ad hoc (bond verdi, servizi bancari di base per la popolazione non bancata). La creazione di un nuovo intermediario ad alto impatto sociale da parte di fondazioni ex bancarie, del sistema bancario cooperativo e altri soggetti no-profit, finanche dell’equity crowdfunding (una sorta di BancaVerde, nel più ampio senso del termine) potrebbe essere un’originale opportunità;

c) sviluppo di attività Fintech, non tanto come espressione di generica innovazione finanziaria, ma come attività per la riscrittura di interi processi bancari a valenza sistemica, in ottica end to end, integrati con infrastrutture come le piattaforme di pagamento istantaneo o i gateway per facilitare il colloquio delle API delle banche e altri nuovi attori, come i fornitori di servizi di terza parte (TPP). Anche il sistema delle garanzie pubbliche regionali potrebbe essere impostato su applicazioni Fintech.

Come effetto della morte del Monte dei Paschi, ci piace pensare a questo nuovo contesto competitivo, piuttosto che a uno scenario di concorrenza tra titani a colpi di trasferimento di sportelli bancari, dolorose operazioni di ristrutturazione e soprattutto sostanziali elargizioni di denaro pubblico. È davvero una prospettiva impraticabile per uscire dalla maggiore crisi bancaria del nuovo millennio?

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3 COMMENTS

  1. Angeloni e Corsini, entrambi ex Bankitalia, che ci raccontano il disastro annunciato di MPS, come un cold case irrisolto che piu’ pende e piu’ rende anche perche’ pagano i contribuenti La considerazione che mi viene di fare e’ che per conoscere certe verita’ bisogna uscire da Bankitalia perche’ forse quando si e’ all”interno non si ha la necessaria liberta’ e qualcosa di poco ortodosso suona come lesa maesta’. Spero di sbagliarmi perche’ se e’ cosi’ sarebbe preferibile chiuderla e finalmente certi imbarazzi finirebbero.Preghiera del Santo Risparmiatore, Signore se la mia banca si ammalora tieni lontano coloro che sono incaricati di controllarla.

  2. Le vicende che hanno travolto le banche toscane e che oggi interessano la soluzione per Montepaschi, realizzano certe impunità che ormai costituiscono scudo certo a chi ha amministrato e gestito.
    Potrebbe intendersi come l’attuazione pedissequa del primo disegno di legge Cartabia, che intendeva introdurre prescrizioni erga omnes.
    Il paradosso per MPS è che tra Premier e Ministro dell’Economia ci si ritrova con gli stessi personaggi coinvolti, in altra veste, nella gestione “insana” che ne ha generato il tracollo.
    Se si trattasse di religione, si potrebbe dire: “misteri della fede” e “amen”.

  3. In genere quando si parla di Unicredit si è convinti che si tratti di una realtà sostanzialmente italiana ma, come è ben spiegato nell’articolo citato, le cose non stanno proprio così.
    Dal dettaglio dello scritto, a suo tempo pubblicato (novembre 2019) dal duo Coppola-Corsini, risulta che il capitale di Unicredit è in mano a fondi istituzionali esteri. La composizione geografica a quella data vedeva al primo posto Stati Uniti (51%), quindi Regno Unito (23%), Paesi UE (18%), Italia (4%) e infine altri (4%). Tra questi il 10,4% è in mano ai fondi sovrani.
    In relazione a ciò, tenuto già conto che oltre 20 mld di euro sono stati erogati dallo Stato Italiano, nei tempi in cui l’attuale capo del colosso finanziario (Padoan) ricopriva il ruolo di ministro economico di Governo, qualche dubbio potrebbe sorgere.
    Non solo sulla chiarezza dell’intera operazione messa oggi in campo ma anche sull’opportunità di addebitare un ulteriore costo di circa 10 mld di euro ai cittadini italiani e per giunta per procedere a una cessione della sola parte sana di MPS.
    A chi oggi obietta, per la natura del destinatario (di capitale sostanzialmente estero) e stante che gli esborsi effettuati e quelli prospettati ammonterebbero a un salasso di 30 mld circa a carico del bilancio statale, che probabilmente potrebbe tornare più utile e conveniente per l’Italia nazionalizzare l’istituzione toscana si potrà proprio rispondere che è fuori di testa?
    Non ultimo, per il fatto che la cessione a blocchi ipotizzata presupporrebbe sia esuberi di sportelli che un drastico ridimensionamento dei posti di lavoro.
    Boh?

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