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Verde, cambiamento climatico e informazione

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Francesco Ferrini è professore ordinario di Arboricoltura Generale e Coltivazioni Arboree presso l’Università di Firenze

Il discorso sul cambiamento climatico ha visto, negli ultimi tempi, uno spostamento delle discussioni dal livello scientifico, alla politica e, infine ai social network, e ha preso, spesso, una piega ideologica. Nelle forme estreme, negazioniste o catastrofiste, non esiste più traccia del metodo scientifico. È quindi utile, anzi fondamentale, disseminare informazione corretta, affidabile, basata su conoscenze scientifiche. All’opposto la confusione che si crea con la diffusione di messaggi errati è d’impedimento alla chiarezza e univocità del messaggio; maggiore è l’entropia, minore è la quantità di informazione.i

Purtroppo, l’opinione pubblica appare più propensa ad ascoltare i social network che, se ben utilizzati, permettono di mettere in mostra la propria personalità e di esprimere le proprie; se, invece, come spesso accade negli ultimi tempi, sono utilizzati in modo sguaiato e per infangare il “nemico”, fanno male, hanno effetti deleteri sulla personalità e possono portare anche a problemi psichici.

Purtroppo, le conseguenze di un cattivo uso (le cosiddette fakenews o il far diventare “virali” quelle che una volta erano le chiacchiere da bar e in tale ambito rimanevano confinate) tendono a ribaltare ciò che la scienza ha consentito di spiegare.

L’informazione non veritiera può provocare nell’utente fraintendimenti che lo portano a comportarsi in modo scorretto e inadeguato, diffondendo un messaggio errato. Pensiamo a ciò che può succedere nel campo medico, dove comportarsi in modo scorretto e inadeguato può mettere a rischio la salute propria e di altre persone, determinando ansia e disorientamento.

Nel 1981, Ronald Reagan, allora presidente degli Stati Uniti, affermò che Gli alberi causano più inquinamento delle auto. L’ottanta per cento dell’inquinamento atmosferico proviene da piante e alberi”, stravolgendo completamente un’informazione proveniente dal mondo scientifico e usandola come arma politica.

A livello scientifico non c’è, invece, dubbio che il sistema migliore per ridurre l’inquinamento e gli effetti del cambiamento climatico sia la riduzione delle emissioni, e che l’unico mezzo per ridurre l’entropia delle nostre città è arricchire il patrimonio arboreo in termini non solo quantitativi (più alberi, più superfici verdi), ma anche qualitativi (alberi più adatti al clima futuro, più resilienti, più efficienti dal punto di vista della fornitura di benefici, ecc.). Ciò significherebbe una riduzione dei consumi energetici (riduzione delle emissioni) e un ambiente urbano più sano.

Anche se la questione “verde urbano” fatica a entrare nel pensare quotidiano, oggi siamo più consapevoli di ieri. L’ambiente non è più affare esclusivo degli ambientalisti che, nel nostro Paese, sono talvolta spinti da pulsioni integraliste che non portano ad alcun risultato se non all’acuirsi di contrasti con i gestori del verde, oppure, come è successo nel passato, hanno spesso gestito la questione “ambiente” come un orto protetto per carriere politiche o accademiche o per ottenere visibilità mediatica, grazie all’indifferenza della maggior parte del Paese.

Tuttavia, l’opinione pubblica inizia a intuire che l’ambiente presente e futuro è troppo importante per essere affidato solo agli ecologisti.

Da persona che si occupa di alberi non ho certezze (se non quelle della scienza), né voglio averne consapevole della mia /nostra transitorietà ma, in un’ottica di vero sviluppo sostenibile (cioè quello che secondo il rapporto Bruntland del 1987 è uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni dellagenerazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri»), vorrei proporre tre ipotesi:

1) Degli alberi avremo sempre più bisogno, ma se non cominciano subito a pensare e a pianificare le nostre future città, siamo fritti, anzi soffocati perché, senza essere catastrofista, l’apocalisse climatica appare meno imminente del collasso nella qualità dell’aria che respiriamo.
2) Le risorse economiche, scarse, sono contese. Per questo motivo dobbiamo spiegare bene quali sono i benefici, anche economici delle aree verdi e degli alberi in particolare (si parla di una resa media di 1,5-1,7 per ogni euro investito nel verde, ma a New York questo valore è di 5.6$ per dollaro investito), per fare in modo che ci siano investimenti consistenti nel miglioramento ambientale delle nostre città.
3) Non c’è antidoto contro la manipolazione mediatica delle coscienze e delle conoscenze, inevitabile quando il tema è “politico”. È quindi necessario tradurre il sapere in politiche ambientali, pianificatorie, di sviluppo, ecc.

Sono conscio delle mie responsabilità e dei miei limiti e a chi ha la soluzione per tutto dico che le nostre città sono malate e chi giura di avere la ricetta miracolosa per guarirle mente sapendo di mentire. Pur sapendo che non è possibile risolvere l’effetto serra e il riscaldamento globale nel suo insieme solo con la piantagione di alberi, anche perché occorre un pool di persone con diverso background scientifico che ci dica dove, come e cosa piantare sulla base di un’analisi non solo climatico-ambientale, ma anche sociale e politica, è inconfutabile che essa rappresenta il modo più semplice, efficiente ed efficace.

Gli alberi, dunque, sono la principale soluzione nel breve-medio periodo, ma devono far parte di una strategia più ampia per promuovere un modello di città “verde”, sostenibile e dinamica, che miri a gestire l’inevitabile (con strategie di mitigazione volte a prevenire il climate change come, ad esempio ridurre le emissioni, sviluppare trasporti sostenibili, costruire edifici efficienti in termini energetici, far crescere le fonti rinnovabili ed evitare l’ingestibile (con strategie di adattamento volte a rispondere agli impatti del climate-change, come cambiamenti nelle politiche pianificatorie, gestione del deflusso delle acque, messa a dimora. di alberi/arbusti con elevata rusticità e resilienza).

Solo mettendo insieme le varie parti coinvolte (quelli che adesso chiamiamo stakeholders) con la volontà di dialogare sarà possibile fare  passi avanti. Cambiare la testa è possibile, anzi inevitabile. È successo molte volte nella storia dell’Umanità, ma questa volta è più difficile perché tutto sta accadendo in un tempo molto breve, confrontabile con la vita di una generazione.

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