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I trenta anni della legge sulla difesa del suolo

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Novembre 1966. Una rotta del Piave in provincia di Treviso

Con questo articolo inizia a collaborare l’Ing. Antonio Rusconi, già Segretario Generale dell’Autorità di Bacino dei fiumi dell’Alto Adriatico a Venezia.

Accadde 30 anni fa

​ ​Nel 1989 erano trascorsi più di vent’anni dall’epocale diluvio che, nel 1966, aveva drammaticamente colpito la Toscana e il Triveneto e dalla tragedia del Vajont del 1963.  In quell’anno il Parlamento approvò la legge n. 183 recante Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo.

Era stato un lungo e estenuante periodo di accesi dibattiti e di diverse proposte legislative per la riorganizzazione dell’assetto idrogeologico e della gestione delle acque.Ogni schema proposto,tuttavia, doveva fare i conti con un Paese che aveva avviato radicali e difficili riforme sui trasferimenti di competenze tra Stato e Regioni.

Per tali ragioni, i lavori del 1971 della Commissione interministeriale, presieduta dal Prof. Giulio De Marchi, e della Conferenza Nazionale delle Acque non avevano trovato applicazione.

La Commissione aveva concluso i lavori con una ponderosa relazione che costituì, per i decenni successivi, un fondamentale punto di riferimento.

Dopo aver definito i compiti dello Stato e delle Regioni, la Commissione propose uno schema di difesa del suolo basato sulla suddivisione del territorio in compartimenti idrografici sovraregionali. La loro direzione doveva essere affidata a “Magistrati alle Acque”, in analogia con l’Istituto esistente a Venezia fin dai tempi della Repubblica Veneta. Avrebbero avuto il compito di redigere un piano di bacino, finalizzato alla programmazione e realizzazione dei necessari interventi per fronteggiare i rischi idrogeologici.

Novembre 1966. Gli allagamenti nel Nord-Est (ha 175.000)

La Commissione indicò anche un programma di opere indispensabili per la difesa idraulica del territorio, da attuare in trent’anni nei singoli bacini idrografici (Po, Tevere, Adige, Arno, Piave, Volturno, ecc.). Gli interventi erano serbatoi montani (dighe), traverse, arginature e scolmatori, ed opere di sistemazione agrarie-forestali per la difesa dalle frane e dei litorali dalla mareggiate.

Sempre negli anni ’70 del secolo scorso fu istituita dal Senato la Conferenza Nazionale delle Acque, con il compito di analizzare la situazione quali-quantitativa delle risorse idriche del nostro Paese, stimandone la disponibilità, nei diversi bacini fluviali, confrontandola con i diversi fabbisogni, irrigui, civili e industriali.

Le due Commissioni lavorarono in stretto contatto e molte conclusioni furono comuni. Tra queste, sono da sottolineare la necessità di nuovi interventi strutturali per trasferire l’acqua nel tempo (mediante serbatoi) e nello spazio (tramite condotte e acquedotti).

Negli anni seguenti tali ambiziosi programmi non trovarono attuazione, lasciando il Paese esposto ad un crescente rischio idrogeologico, determinato anche dall’incontrollata estensione del consumo di suolo. Furono operate  scelte urbanistiche in genere disattente alle conseguenze idrauliche e geologiche indotte dalle trasformazioni dell’uso del suolo.  

La nuova stagione della legge 183

Con la legge 183 si inaugurava una nuova stagione di ricostituzione della Pubblica Amministrazione finalizzata alla difesa del suolo, al risanamento delle acque, alla fruizione ed alla gestione del patrimonio idrico. L’obiettivo era di favorirne gli usi per un razionale sviluppo economico e sociale e per la tutela degli aspetti ambientali.

La legge riorganizzò i soggetti pubblici preposti e ne istituì di nuovi, al fine di svolgere azioni di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, nonché della loro realizzazione.

La legge aveva previsto la riorganizzazione dei Servizi Tecnici dello Stato (Idrografico e Mareografico, Geologico, Dighe e Sismico) trasferendoli presso la Presidenza del Consiglio.

Il territorio nazionale fu suddiviso in bacini idrografici di rilievo nazionale, interregionale e regionali. Alla loro guida furono istituite le Autorità di Bacino (a composizione mista Stato e Regioni) per la redazione dei piani di bacino, previsti molti anni prima dalla Commissione De Marchi.
I bacini idrografici definiti dalla legge 183/1989

Il Piano di bacino anzitutto avrebbe dovuto fare il quadro delle situazioni di degrado, dissesto e di rischio, nonché di sovrasfruttamento delle risorse idriche, individuandone le cause. Avrebbe,inoltre, indicato gli interventi, strutturali e non, necessari per il perseguimento degli obiettivi fissati dalla legge.

Avrebbe quindi tracciato il percorso per una migliore utilizzazione del territorio che, oltre alle risorse idriche, comprende anche quelle agrarie, forestali ed estrattive. Il Piano doveva indicare anche le zone da assoggettare a speciali vincoli e prescrizioni, sia sotto il profilo degli insediamenti, sia per quanto concerne l’inquinamento del suolo, delle acque ed il versamento delle discariche.

I piani di bacino dovevano essere attuati mediante i programmi triennali di intervento da inserire periodicamente nelle leggi finanziarie.

Le difficoltà

Nonostante l’iniziale entusiasmo generale, il concreto raggiungimento degli obiettivi delineati dalla nuova legge si dimostrò subito di grande difficoltà.  

La riforma dei Servizi Tecnici dello Stato non fu attuata. Al contrario, le loro funzioni furono successivamente distribuite, in maniera frammentata, tra le Regioni e alcuni Ministeri dello Stato.

La formazione dei piani di bacino si dimostrò un traguardo complesso e difficile. Inoltre, le criticità aumentarono a causa dell’emanazione di norme successive che interferirono, spesso in maniera disarticolata, con il percorso originario della legge.

Ricordiamo,ad esempio,la legge 225/1992 (istituzione del Servizio Nazionale della Protezione Civile), la legge 36/1994 (introduzione del Servizio Idrico Integrato), il D.lgs112/1998 (trasferimento alle Regioni di ulteriori funzioni e compiti in materia di competenze idraulico-territoriali), il D.lgs 152/1999 (tutela delle acque dall’inquinamento), ecc.        

I piani di bacino, approvati solo per stralci negli anni successivi, dopo lunghi e estenuanti percorsi tecnico-amministrativi, non trovarono poi concreta attuazione. Finirono dimenticati negli archivi, mentre i programmi triennali di intervento non vennero mai redatti. 

La lista è lunga:il piano stralcio delle fasce fluviali del Po (approvato nel 1998), il piano stralcio sulla difesa idraulica del Tagliamento del 2000, il piano stralcio sulla gestione delle risorse idriche del Piave del 2007, ecc.

Per contro, molto importante è stato il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI), introdotto da specifiche norme (legge “Sarno” n.267/1998 e legge “Soverato” n. 365/2000) oggi ancora in vigore, redatto in tempi diversi da quasi tutte le Autorità di Bacino. Il PAI ha perimetrato le aree a rischio idraulico e geologico. Ha introdotto norme rigorose in funzione dei diversi livelli di pericolosità individuate in apposite mappe dei bacini idrografici.

Conclusioni

Nel 1999 il Parlamento, per analizzare i problemi connessi con l’attuazione della difesa del suolo, e per formulare le più opportune proposte migliorative della vigente legislazione, nominò una Commissione bicamerale, presieduta dal Senatore Massimo Veltri. I lavori della Commissione sono contenuti in due importanti volumi, editi dal Senato, le cui conclusioni sinteticamente confermano “una sostanziale inefficacia” della legge 183.

Molti sono i motivi.

La suddivisione dei bacini idrografici in tre classi (nazionali, interregionali, regionali) creava una eccessiva frantumazione delle azioni previste dalla difesa del suolo.

Anni ‘60,’70,’80: estrazione indiscriminata di ghiaia negli alvei dei fiumi

Inoltre, la natura giuridica delle Autorità di Bacino era dubbia: aveva compiti di “comando” oppure era semplicemente un tavolo di concertazione? Doveva essere autoritaria o autorevole? E quale era la natura dei piani di bacino? Potevano intervenire sulla pianificazione del territorio e sull’uso del suolo, materie di esclusiva e recente competenza delle Regioni? E quale doveva essere il rapporto con la Protezione Civile?

E ancora, come rivedere la clamorosa questione dei Servizi Tecnici Nazionali, ridotti al silenzio a fronte delle numerose iniziative delle Regioni in materia di attività conoscitiva (monitoraggi, rilievi, studi, ecc.).

In definitiva, la Commissione Bicamerale concluse la sua dettagliata analisi, affermando che la legge 183 sulla difesa del suolo avrebbe avuto bisogno di una correzione, ma non di un stravolgimento, perché il suo impianto era comunque solido e razionale”

Il destino della legge del 1989 è stato disegnato con l’emanazione della Direttiva Quadro Acque n. 2000/60/CE. Essa ha profondamente aggiornato il quadro complessivo della gestione delle acque.

Il nostro Paese ha impiegato 6 anni per recepirla, con il D.lgs 152 del 2006 (Testo Unico Dell’Ambiente) che ha abrogato la legge 183, aggiornandone lo schema organizzativo (con i Distretti Idrografici, la partecipazione pubblica, ecc.), ma conservandone alcuni basilari aspetti (le Autorità di Bacino, etc.). Inoltre, ha introdotto una nuova generazione di piani di bacino, coerenti con il precedente quadro normativo e la citata Direttiva.

A trent’anni dalla sua promulgazione, dobbiamo riconoscere che la legge 183 ha avuto il merito di avere dato attuazione a molti indirizzi a suo tempo indicati dalla Commissione De Marchi e dalla Conferenza Nazionale delle Acque. Ciò è avvenuto durante una travagliata fase per le riforme in atto sul decentramento amministrativo e sul trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni. Queste riforme sono state spesso introdotte con una non adeguata attenzione agli aspetti della gestione dell’assetto idrogeologico e delle risorse idriche del nostro Paese.    

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