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La Ditta Restivo ovvero quando le acciughe fanno il pallone

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Tempo di lettura: 4’. Leggibilità ***.

Qualche giorno fa Economia & Finanza Verde ha proposto un piccolo gioiello del compianto Luca Alinari (Da sotto le gambe di un cavallo) che induce a riflettere sul nostro modo di osservare le cose, allocandosi in posizioni che aprono su inattese prospettive.

Allo scopo Alinari prende spunto da una xilografia giapponese che, come si legge sul web, è una tecnica di incisione artistica usata per creare immagini, consentendo di passare da colori tenui e quasi trasparenti a colori accesi e cupi. La corrente più importante della xilografia giapponese, più comunemente conosciuta con il nome di ukiyo-e, ha un significato, di provenienza buddhista, che sottolinea il carattere effimero e doloroso della vita umana.

Altro elemento utilizzato nel breve filmato è quello delle “quinte” che, nelle composizioni artistiche delimitano lateralmente lo spazio scenico.

Allo stesso modo, per “quinta fotografica” è da intendersi un elemento posto in primo piano, generalmente ai lati dell’inquadratura, che faccia da cornice al soggetto, così da andare a creare una profondità utile per una più agevole lettura del messaggio che si intende trasmettere a chi osserva.

Da entrambi gli input nasce la mia reminiscenza di oggi che, andando indietro nel tempo, rievoca immagini e personaggi della mia giovinezza che emergono dalla nebbia che ogni tanto si dirada.

Il ricordo è quello della Ditta Restivo, che a molti miei coetanei borgatari susciterà certamente anche i loro ricordi.

A quel tempo, noi che abitavamo nelle periferie di Palermo potevamo raggiungere il centro urbano con linee di bus affidate a ditte private di autotrasporti. Per me, che abitavo nella borgata di Acqua dei Corsari, era la Ditta Restivo che, con autobus vetusti tutti diversi tra di loro, ma di uno stesso colore verde, copriva la tratta “Piazza Ignazio Florio (centro città) – Pomara” (ultima periferia lato est di Palermo, limitrofa al comune di Villabate).

La stessa piazza Florio faceva anche da capolinea agli autobus della stessa Ditta che collegavano paesi come Bagheria, Santa Flavia o Casteldaccia. In questo caso il colore dei bus era però il blu e le fermate escludevano quelle interne urbane. Una linea diretta pertanto, come per i treni; le fermate in salita e in discesa erano quelle prossime alla periferia, poi via diritti in Centro.

La municipalità assicurava direttamente con una propria azienda (Amat) i collegamenti urbani interni. A quel tempo le corse erano limitate e i relativi percorsi che collegavano gli ampi spazi cittadini erano lunghi. Non di rado gli ingolfamenti di traffico determinavano soppressioni di corse che generavano non pochi problemi agli utenti sprovvisti di alternative.

La numero uno in città era quella classica che partiva dalla Stazione Centrale e, lungo l’asse vie Roma-Libertà, faceva capolinea a Piazza Leoni, in prossimità di via del Fante (Sede dell’Amat).  Su questa linea, erano frequenti i borseggi. Le variegate modalità dei delinquenti costituivano una vera e propria università del crimine scippatorio. Meriterebbero un racconto a parte.

Tornando alla Ditta Restivo, tutti noi borgatari conoscevamo autisti e bigliettai, quasi sempre gli stessi. Familiarizzare con loro veniva naturale.

Due li ricordo in particolare: Mimiddo che faceva l’autista, originario forse di Misilmeri o di qualche paese limitrofo, e Saverio, il bigliettaio, della borgata di “Conte Federico”. Davvero una coppia affiatata.

Strategiche erano le frenate di Mimiddo, sollecitate da Saverio per favorire un addensamento dei passeggeri in avanti, quando erano ormai vani gli appelli a seguire il classico: signori, avanti c’è posto o altri richiami a non stazionare in fondo al bus quando cominciava ad affollarsi.

Molti di noi eravamo studenti. Come non ricordare, Franco, Giuseppina, Enzo, Giovanna, Giacomino, Mariella, Umberto e tanti altri.

Per gli studenti La Ditta Restivo praticava tariffe agevolate, tramite abbonamenti che andavano richiesti alla sede ubicata in una strada parallela a Corso dei Mille e venivano rinnovati ogni mese, salvo in quelli delle vacanze, con appositi bollini.

Le tessere erano strettamente personali, come vi era severamente scritto e asseverato da una nostra fotografia di piccolo formato, quasi mai rinnovata, anche se crescevamo e con noi crescevano barbe e capelli che ci rendevano irriconoscibili.

I controllori operavano con efficienza, ma anche con discrezione. La conoscenza che avevano di noi impediva che qualcuno viaggiasse a sbafo. Nemmeno quando il bus stracolmo aveva difficoltà a chiudere le bussole. Il vigile bigliettaio provvedeva con abili passaggi di mano, tramite altri passeggeri, a ricevere il denaro e a restituire biglietto e resto. Era uno spettacolo prestigiditatorio vederlo all’opera.

Ad ogni accellerazione e rallentamento le spinte erano normalità, fin quando l’ammassamento – tipo il “pallone” delle acciughe cantato da De Andrè – era tale da realizzare un unico volume che si adeguava ad ogni sollecitazione: tutti avanti o tutti indietro o di lato, a seconda della direzione e delle variazioni di guida.

Saverio era empatico e d’indole gentile. Talvolta, quando non c’era più posto a sedere cedeva, ad anziani o donne incinte, il suo angusto spazio di bigliettaio. Un giorno circa a metà del solito percorso “Palermo Centro-Pomara” si venne a conoscenza del suo fidanzamento e del programmato matrimonio. Non mancarono gli auguri, né qualche innocente sberleffo e battuta.

Da bigliettaio, a ogni tratta, era suo obbligo fare il rendiconto scritto delle rese, riempiendo caselle minutissime di appositi moduli. Lo faceva, seguendo le evoluzioni della guida di un autobus semivuoto, prossimo al capolinea. Su un grande foglio annotava i numeri del primo dei biglietti non staccati, che poi sarebbe stato il primo da distribuire nella corsa di ritorno. Era concentrato al massimo per evitare errori e differenze di cassa che sarebbe stato richiamato a ripianare dal suo stipendio, che non doveva essere un gran che. Sul piccolo banco allineava blocchetti di colore diverso, in ragione del prezzo della tratta, come se schierasse le truppe della sua quotidiana battaglia.

Le attese al capolinea e alle fermate erano per noi anche una delle poche opportunità per socializzare al di fuori della cerchia degli studenti. Notizie su conoscenze più o meno prossime, scambi di vedute sugli argomenti del momento, secondo appartenenze generazionali, gradi di parentela, rapporti di vicinato servivano a chiudere il gap generazionale.

Riprendendo lo spunto iniziale (quello della prospettiva e delle quinte), questo ultimo ricordo vuole essere la mia quinta fotografica, che mi mostra un quadro nella sua profondità spaziale e temporale, come in un vortice che vede la vita secondo la sequenza di un autobus che si allontana verso la destinazione.

Dalla cultura africana viene un proverbio che recita: “Quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca”.

Qualcuno ha anche scritto che “è vero e non è retorica quella che, ogni volta che si sprofonda negli emozionanti racconti degli amici vecchietti, è come se si stesse rileggendo un libro”. E poco conta se si ha a che fare con storie minute, invece che con grandi ed eroiche avventure.

Buona luce a tutti!

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1 COMMENT

  1. Bellissimo cameo dell’Italia e dei suoi mezzi di trasporto. Ricordo che nelle condizioni descritte nell’articolo molti riuscivano anche a fumare sigarette. Credo che in molte parti di Italia la situazione non sia cambiata piu di tanto.

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