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Una nuova “causa climatica”? La Rete Legalità per il Clima diffida l’Eni

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Una manifestazione a Coo 26, Glasgow (foto dell’autore)
Una manifestazione a Cop26, Glasgow (foto dell’autore)

Inizia con questo articolo la collaborazione con Economia&FinanzaVerde di Riccardo Luporini Dottore di Ricerca in Human Rights and Global Politics, Scuola Superiore Sant’Anna, membro della Delegazione della Scuola Sant’Anna alla Cop 26 che si è tenuta a Glasgow dal 31 ottobre al 14 novembre 2021. Contribuisce alla rubrica “Pillole di diritto internazionale”, linea editoriale della piattaforma, curata dalla Professoressa  Francesca Capone della stessa Scuola Superiore.

Tempo di lettura: 9’.

Lo scorso 26 luglio, la Rete Legalità per il Clima, una rete di ricercatori, giuristi e avvocati impegnati a far valere la giustizia climatica nei confronti di istituzioni pubbliche e imprese private, ha diffidato Eni S.p.A. ad: i) abbattere le proprie emissioni di gas serra, dirette e indirette, ad un livello compatibile con il target di lungo termine indicato dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi; ii) abbandonare, entro e non oltre il 2022, qualsiasi finanziamento al fossile; iii) escludere la produzione di idrogeno blu.

Lo scorso 27 ottobre, Eni S.p.A. ha risposto alla diffida definendole accuse irricevibili e, senza entrare nel merito degli argomenti giuridici sollevati dalla Rete, ha cercato di respingere le critiche sostanziali mosse all’operato del gruppo. La Rete ha infinereplicato in data 10 novembre, riservandosi di agire nelle sedi opportune.

In attesa dunque delle prossime iniziative, un nuovo fronte sembra aprirsi nel “contenzioso climatico” italiano. Francesca Capone ha già illustrato in questa sede “Giudizio universale”, ossia la prima causa climatica promossa dalla stessa Rete di giuristi contro lo Stato italiano. Ora ad essere portata in giudizio potrebbe essere la più grande “oil & gas company” del Paese.

Cambiamento climatico e responsabilità delle carbon majors

Il Pianeta si sta riscaldando, e ciò si deve, principalmente, ai gas ad effetto serra che una serie di attività umane rilasciano nell’atmosfera. Questo è ormai considerato un fatto inequivocabile. L’ultimo contributo del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), rilasciato ad agosto 2021,traccia una relazione quasi-lineare tra concentrazione di gas ad effetto serra nell’atmosfera e riscaldamento della temperatura media globale. Il riscaldamento globale porta ad una serie di cambiamenti ed effetti avversi, come scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, desertificazione, riduzione della biodiversità, diffusione di alcune epidemie, e, infine, maggioreintensità e frequenza di una serie di eventi meteorologici estremi, ad esempio ondate di calore, tempeste, ecc.

Sebbene questi effetti siano più gravi ed immediati nei Paesi vulnerabili del c.d. Sud globale, anche i Paesi sviluppati, come quelli europei, e l’Italia in particolare, sono e saranno sempre più colpiti. Da ultimo, la Sicilia ha dovuto fare i conti con un “medicane”, un tipo di uragano che si sviluppa nel Mediterraneo e che rischia di essere sempre più pericoloso a causa della progressiva tropicalizzazione di questo bacino indotta dal riscaldamento globale.

Se è vero che le emissioni climalteranti derivano da una vasta gamma di attività economiche, è evidente che alcune di esse sianoparticolarmente impattanti. Questo vale innanzitutto per le attività di sfruttamento degli idrocarburi. Con il termine “carbon majors”si fa riferimento alle grandi compagnie di combustibili fossili a livello mondiale. Stando ad uno studio del “ClimateAccountability Institute”, nel 2015 una centinaia di queste compagnie era responsabile del 70% di tutte le emissioni antropogeniche. Questo significa, banalmente, che queste compagnie hanno un’enorme responsabilità nell’aver causato il cambiamento climatico. Secondo il database curato dallo stesso istituto, Eni S.p.A (con i dati al 2018) è al 24° posto della (triste) classifica delle compagnie che hanno emesso di più a livello mondiale.

Per mitigare il cambiamento climatico, si devono innanzituttoridurre rapidamente queste emissioni. Il contrasto al cambiamento climatico è tra le priorità della comunità internazionale, a partire dall’adozione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 1992. Nel 2015, l’Accordo di Parigi ha stabilito l’obiettivo comune di contenere il riscaldamento globale ben al di sotto (“well below”) 2°C rispetto all’era pre-industriale e di compiere sforzi per limitare tale riscaldamento ad 1.5°C. Lecompagnie private si stanno adeguando alla necessaria transizione energetica finalizzata a ridurre le emissioni, ma gli sforzi compiuti a livello globale non sono affatto in linea con questi obiettivi e, soprattutto, rimane un importante gap tra le promesse e le azioni effettivamente realizzate,  come segnalato, tra gli altri, da ClimateAction Tracker e dalla stessa Agenzia internazionale dell’energia.

Il contenzioso climatico

Con l’espressione “contenzioso climatico” si fa riferimento ad un eterogeneo insieme di cause legali che sollevano questioni di diritto o di fatto concernenti il cambiamento climatico e lepolitiche di contrasto di tale fenomeno (si veda in generale qui e qui). Sviluppatosi negli Stati uniti, il contenzioso climatico è oggi in grande espansione a livello globale. In particolare, negli ultimi anni sono stati intentati alcuni casi strategici e di alto profilo, con i quali i ricorrenti cercano di inchiodare i soggetti inquinanti alle loro responsabilità. Ad essere citati in giudizio sono innanzitutto gli Stati. Noto è il “caso Urgenda”, in cui, nel dicembre 2019, la Corte suprema olandese ha obbligato il Governo a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra del 25% rispetto ai livelli del1990, al fine di tutelare i diritti fondamentali dei cittadini olandesi.Dal caso Urgenda hanno tratto ispirazione una serie di altri procedimenti in Francia, Germania, Belgio e anche al di fuori dell’Europa, alcuni dei quali hanno poi avuto successo. In questo filone di contenzioso climatico si è recentemente inserita anche la prima causa climatica contro lo Stato italiano che, come già ricordato, è stata lanciata a giugno 2021, con la prima udienza stabilita per il prossimo 14 dicembre.

Un numero minore, ma in rapida crescita, di cause climatiche è invece rivolto ad attori non statali, e quindi a compagnie private. Anche in questo ambito specifico il caso modello arriva dai Paesi Bassi: il “caso Shell”. Nel maggio 2021, a seguito di un giudizioincardinato dalla ONG ambientalista Milieudefensie, insieme ad altre organizzazioni e più di 17.000 cittadini olandesi, la Corte distrettuale dell’Aja ha ordinato alla Royal Dutch Shell plc diridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019, per prevenire i rischi legati al cambiamento climatico (per una dettagliata nota a sentenza si veda qui). Nel target stabilito, sono incluse emissioni cd. “scope 1, 2 and 3”, quindi sia direttamente rilasciate dalla compagnia sia dagli acquirenti dei prodotti petroliferi. La sentenza è storica, ed unica al momento. La sentenza tuttavia è di primo grado, e la Shell ha già confermato di voler ricorrere in appello.

Simili procedimenti contro altre “carbon majors” sono già pendenti dinanzi a corti francesi e tedesche, oltre che statunitensi. Anche una potenziale causa contro Eni potrebbe usare il casoShell come modello, adattandolo alle specificità dell’ordinamentoitaliano.

La diffida della Rete e la risposta di Eni

Nella lettera di diffida, la Rete sostiene che le attività di Eni S.p.A. contribuiscono al cambiamento climatico e, di conseguenza, minacciano il godimento dei diritti fondamentali. La diffida sottolinea che Eni è responsabile di una quantità di emissioni di gas ad effetto serra maggiore rispetto a quelle rilasciate dall’intero Stato italiano. La Rete fa notare, inoltre, come la compagnia sia da tempo cosciente dell’emergenza climatica in atto, avendo organizzato tra l’altro attività di formazione sul tema. Ad ogni modo, la diffida non si concentra unicamente sulle condotte già poste in essere, bensì sul Piano strategico aziendale 2021-2024.

Con questo piano l’azienda inizia il proprio cammino verso il “net zero” (la neutralità climatica) al 2050. Tuttavia, secondo la Rete, emergono alcune contraddizioni. In primo luogo, il Piano prevede nel breve periodo un aumento delle emissioni di gas ad effetto serra. Le emissioni saranno ridotte solo a partire dal 2025, per arrivare ad un 25% di riduzione nel 2030. Le riduzioni maggiori sono dunque lasciate al post-2030 e, a tale scopo, sarannodeterminanti le iniziative di neutralizzazione e compensazione, ad esempio progetti di conservazione delle foreste, e le tecnologie di cattura e rimozione della CO2 dall’atmosfera. La Rete fa notare, in particolare, come queste tecnologie non siano ancora sufficientemente sviluppate; in via generale, il rischio è che le aziende inquinanti facciano affidamento su quest’ultime invece di stabilire target di riduzione delle proprie emissioni più ambiziosi.

La Rete conclude affermando che l’inadeguatezza del Pianocontribuisce al verificarsi di sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali delle presenti e delle future generazioni, e che le attività climalteranti di Eni integrano una responsabilità civile dell’azienda.

Nella risposta alla diffida, Eni respinge le accuse ed illustra le suenumerose iniziative e azioni programmatiche a favore della transizione energetica. Eni sottolinea, inoltre, la trasparenza con cui presenta la propria strategia di riduzione delle emissioni al pubblico e ricorda, in particolare, che non esiste un chiaro standard internazionale di riferimento per valutare l’allineamento delle strategie di decarbonizzazione delle aziende oil&gas con gli obiettivi climatici. La risposta conclude enfatizzando che la strategia industriale del gruppo si inserisce nella traiettoria definita dall’Accordo di Parigi sul clima.

Un breve commento

Quello della responsabilità delle corporations in merito al cambiamento climatico è certamente un tema molto complesso. In questa sede, si affrontano, brevemente, solo alcuni degli aspettipiù controversi.

Il primo punto da affrontare riguarda l’applicabilità degli obblighiinternazionali in materia di clima e di tutela dei diritti umani alle aziende private. Le norme di diritto internazionale sono create dagli Stati e vincolano, in primo luogo, questi ultimi. Sono poi gli stessi Stati che, mediante la normativa nazionale, regolamentano la condotta dei soggetti privati. In un tale contesto, sembra tuttavia evidente il rischio che le imprese multinazionali possano, in una certa misura, sfuggire alla regolamentazione. È per questo che negli anni recenti si sono sviluppati alcuni strumenti internazionali che definiscono e disciplinano lo standard di condotta delle imprese in materia di tutela dell’ambiente e dei diritti umani. I “Guiding Principles on Business and Human Rights” delle Nazioni Unite sono il primo esempio di queste norme di cd. “soft law”, dunque di per sé non vincolanti, ma che sono sempre più spesso applicate da organi giudiziali, acquistando dunque un valore prescrittivo. Nel caso Shell, infatti, la Corte olandese ha fatto ampio riferimento a questi Principi, insieme alla Convenzione europea dei diritti umani e all’Accordo di Parigi, come strumento di interpretazione della normativa nazionale sullo standard di condotta (“duty of care”) vincolante per le aziende private.

Una seconda questione controversa riguarda l’esistenza di unnesso di causalità tra le emissioni di gas ad effetto serra e la violazione dei diritti fondamentali dei cittadini italiani. A tal proposito, occorre sottolineare che non si tratta unicamente di appurare lesioni già subite, ma di riconoscere il rischio imminenteche queste violazioni si verifichino. L’obbligo diviene dunque quello di prevenire tali violazioni, attraverso una riduzione immediata delle proprie emissioni. Ed è importante sottolineare, come del resto ha fatto anche la corte olandese, che è normale che ci sia incertezza su questi impatti futuri, perché tale incertezza è insita nella scienza del clima. Questa non può divenire, tuttavia,una giustificazione per non agire, anche alla luce del principio di precauzione.

Infine, la successiva attribuzione di responsabilità ad Eni S.p.A. Èevidente che le emissioni derivino da una molteplicità di fonti, ma il punto è che ogni soggetto, incluso Eni, deve fare la propria parte (“fair share”) nel contrasto al cambiamento climatico. Su questo punto, nel caso Shell, l’azienda convenuta ha utilizzato la controargomentazione della “perfect substitution”, cioè il fatto che eventuali ulteriori riduzioni delle proprie emissioni sarebbero state, di fatto, compensate dai concorrenti. La corte olandese ha però rigettato questo argomento, sottolineando che anche in questa circostanza non sarebbe possibile estinguere le responsabilità dell’azienda. Il punto sostanziale diviene dunque l’identificazione di questa “fair share” per ogni soggetto inquinante. Considerata l’assenza di target specifici nella normativa, i livelli di riduzione delle emissioni sono principalmente ricavati da studi scientifici. Tuttavia, il corretto e coerente utilizzo di questi studi in sede giudiziale è ancora un “work in progress”. D’altro canto, l’inadempienza climatica è evidente quando i tagli alle emissioni sono assenti, irrisori o tardivi, e se non si dimostra una continua progressione.

Conclusione

Nella prima pagina della risposta alla diffida, Eni fa notare il suo significativo contributo allo sviluppo del Paese. Tuttavia, bisogna ricordare che il soddisfacimento del bisogno energetico e il contrasto al cambiamento climatico sono ormai da considerarsi due impegni complementari, che non possono escludersi vicendevolmente, come ricordato anche nella sentenza Shell.

Chiaramente però, l’ordinamento italiano è differente da quello olandese, e, se la Rete dovesse ricorrere al contenzioso, la legge nazionale applicabile giocherebbe ovviamente un ruolo centrale nell’esito del caso.

Nel frattempo, a livello internazionale, il Glasgow Climate Pact, appena adottato alla Cop26, riconosce che il “net zero” al 2050 non basta. Per rimanere entro 1.5° C di riscaldamento globale si necessita un taglio alle emissioni di CO2 rapido e deciso e che raggiunga almeno il 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010. Il Patto richiede, per la prima volta, di eliminare i sussidi ai combustibili fossili. Non è più tempo, dunque, di annunci e rinvii, occorrono azioni concrete oggi, e anche i piani strategici delle compagnie “oil&gas” devono adeguarsi a questa realtà.

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