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Biennale di Architettura: free space (1 di 3)

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Hippo Ballerina di Bjorn Okholm Skaarup (Danimarca)

Tempo di lettura: tre minuti.

Oggi 20 novembre e’ tempo da lupi: acqua alta, freddo, vento. Non manca nulla, non è il tempo ideale per una gita fuori porta. Ma Venezia sa offrire anche i sogni. E la Biennale di Architettura e’ un sogno. È un’idea di citta’ sull’acqua senza confini dentro la citta’. Piu’ di un terzo della superficie del centro storico si addobba ogni due anni per ospitare l’esibizione della visione dell’architettura, la piu’ importante al mondo.

Mi sono organizzato e, complice il tempo, mi sono deciso a visitarla, visto che fra qualche giorno chiude i battenti. La Hippo Ballerina si trova ai Giardini della Marinaressa, poco prima della Biennale. Mi è parsa l’emblema della Mostra perchè è una sintesi di due opposti, un pò come quello che mi accingo a vedere. E’ anche espressione dell’universalita’ dell’architettura, perche’ la statua ha viaggiato intorno al mondo prima di approdare nei Giardini veneziani. Anche ad essi va riservata una fugace visita perche’ sono stati da poco restaurati e riaperti al pubblico.

Free space, abitabilita’, sostenibilita’ sono i punti focali della Mostra.

Sono quindi, alle 10 in punto, pronto per entrarvi senza aver letto nulla in anticipo e deciso a non avvalermi di un tour guidato. Non sono un esperto e quindi preferisco lasciarmi ammaliare, per godere di queste visioni che suscitano empatia, bellezza, ospitalita’. Per un giorno fine a tutte le paure che ci inondano come esseri umani: dallo spread alle pensioni e così via.

Le suggestioni sin dall’inizio non mancano e partono da lontano, dalla notte dei secoli. Da Vitruvio il grande architetto di Augusto Imperatore che fondò i principi della scienza delle costruzioni per i secoli a venire. Firmitas Utilitas Venustas da perseguire sempre in contrapposizione alle molte opere che l’uomo si è “ingegnato” a costruire: Ugly Useless Unstable.

Con un salto di millenni, l’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, ci ricorda un altro importante aspetto. Il modello urbanistico include non solo gli elementi della giurisdizione in cui viviamo, ma anche elementi transfrontalieri.

Allo stesso tempo, l’architettura è anche il contrario di quanto fin qui detto perchè espressione del potere e delle sue più drammatiche conseguenze o dell’avidità dell’uomo. Per illustrare questa antinomia, pure presente nella esibizione, ho scelto questo manifesto affisso sulla porta di ingresso del padiglione dell’Uruguay. Esso descrive un’esperienza in cui convivono due opposte architetture, quella di una nuova prigione costruita all’interno di una prigione costruita a sua volta come villaggio. Non un gioco di parole. Due architetture opposte per aprire un dialogo.

Padiglione Uruguay

L’architettura contemporanea così come concepita in questa Biennale deve quindi essere capace di creare spazi democratici, aperti a tutti dove potersi incontrare in modo utile e benefico. E’ anche espressione della volontà di accoglienza. E si fa carico di altre componenti, di natura economica, quali il trattamento dei rifiuti e di materiali riciclati e il superamento di tante barriere.

Il recupero della visione classica serve sempre ed è lì, sottostante, a enfatizzare il senso più profondo delle costruzioni umane: il rispetto della natura.

Una società si sviluppa quando i vecchi piantano alberi alla cui ombra sanno di non potersi sedere. Ci ricorda un vecchio proverbio greco. Tutti abbiamo il diritto di beneficiare dell’architettura nel senso più ampio e considerarla come la scienza che offre una coreografia alla nostra vita.

In questo senso, i padiglioni che ho visitato si possono suddividere in tre raggruppamenti.

Installation view of “Svizzera 240: House Tour” at the Swiss Pavilion at the 16th International Architecture Exhibition – La Biennale di Venezia, – Credits: Photo: Christian Beutler / KEYSTONE

Il primo, minoritario, di carattere provocatorio e surreale privo di implicazioni pratiche. Per me il meno interessante, ma anche quello che ha portato all’assegnazione del Primo Premio del Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla Svizzera che ha presentato 240:House Tour. Cioè gli interni degli appartamenti contemporanei ricostruiti come appena terminati, nudi, senza mobilio ed altro.

Un accettabile compromesso tra esigenze di abitabilità e profitto economico. Compromesso tipico dell’edilizia che va dal Novecento ai giorni nostri. Un labirinto che parte da corridoi e stanze piccole di 240 cm. di altezza, per poi arrivare a vetrate e porte gigantesche, le cui maniglie sono collocate ad un’altezza impossibile, sopra la nostra testa. Oggi quando scegliamo una casa siamo attratti dagli interni e dalla loro vivibilità più che dagli esterni. La motivazione del Premio rende bene l’idea. “Per aver reso una installazione piacevole e coinvolgente, ma che al contempo affronta le questioni chiave della scala costruttiva nello spazio domestico.” I 240 cm. di altezza di un interno sono la media minima necessaria per ottenere l’abitabilità in molte parti del mondo. A giustificazione del titolo dell’installazione.

Nel secondo articolo intitolato opening and closing space, vedremo il secondo gruppo, quel che già abbiamo aperto, insieme al terzo gruppo dedicato a chi gli spazi invece li chiude.

Infine un terzo e ultimo articolo raccoglie quello che ho capito sul sustaining space, cioè su interventi urbanistici economicamente sostenibili atti a minimizzare le esternalità negative, in termini di inquinamento, inefficienze, danni alla salute, ecc. Per il nostro Paese e’ una lezione per il futuro da apprendere bene.

(continua)

 

 

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