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Welfare Pubblico e Welfare Occupazionale

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Tempo di lettura: cinque minuti. Leggibilità **.

Il Welfare Occupazionale.

Il tredicesimo Rapporto sullo stato sociale in Italia (curatore Felice Roberto Pizzuti, pagg 532, € 27 in versione cartacea, €6,99 in e-book, Sapienza Università Editrice), presentato nei giorni scorsi, è frutto, come i precedenti, di un’accurata ricerca scientifica, ricca di analisi approfondite e spunti di originalità, senza risparmiare valutazioni scomode delle nostre politiche sociali, comprese le ultime su reddito di cittadinanza e quota 100.

Quest’anno il Rapporto è centrato sulla relazione tra Welfare Pubblico e Welfare Occupazionale, cioè tra il welfare erogato a carico della spesa pubblica e quello che si stabilisce in esito ad accordi contrattuali tra imprese e dei lavoratori, nelle categorie dell’assistenza sanitaria, della previdenza, della formazione e di altri benefit, in sostituzione di porzioni di salario monetario.

Il merito del Rapporto è quello di fornire un inquadramento della questione nell’ambito delle tendenze liberiste affermatesi negli ultimi decenni, che hanno portato a preferire soluzioni di mercato anche per quelle attività che, se svolte dal soggetto pubblico, risultano più efficaci nel contenere le disuguaglianze sociali.

Le conseguenze generali del welfare contrattualizzato si sono riverberate sia sulla crescita economica che sull’equità, agendo in modo diverso nei singoli paesi e impattando negativamente sul processo di convergenza dei paesi dell’Unione Europea.

Sullo sviluppo, agiscono i limiti delle inefficienze del mercato, ben noti alla teoria economica degli ultimi anni, tra i quali quello di pregiudicare la funzione di ammortizzatore economico e sociale assegnata alla spesa pubblica. In termini di equità, vengono accentuate le sperequazioni, incentivando la regressivita’ del sistema fiscale indirizzato a incentivare siffatte pratiche.

Il Welfare Occupazionale in Italia

Il vento liberista ha prodotto nel nostro Paese alcune peculiarità che ci hanno vieppiù disallineato dal resto dell’Europa occidentale, in cui si sono conservati equilibri sociali più accettabili tra spesa pubblica e prestazioni sanitarie e previdenziali. Il rischio è che il nostro paese scivoli verso la condizione dei paesi del Sud e dell’Est Europa.

Tali maggiori squilibri sono stati alimentati dal condizionamento del vincolo del debito pubblico, che ha visto nel Welfare occupazionale un canale per compensare le minori prestazioni dello stato sociale. Con una spesa sanitaria nel complesso di poco inferiore alla media UE, e un livello qualitativo ancora accettabile (salvo al Sud), la quota pubblica è diminuita negli ultimi anni di circa quattro punti.

Alla minore spesa pubblica indirizzata alla sanità hanno tuttavia corrisposto forme di detassazione e di incentivazione fiscale ai privati (imprese e individui) andate a carico della fiscalità generale. La stima delle risorse che affluiscono alla sanità privata è calcolata in 5,7 miliardi annui, di cui 2,5 miliardi rappresentato dagli sgravi fiscali consentiti alle forme assicurative private.

Questa politica ha prodotto altre distorsioni, in quanto i sussidi fiscali, avendo carattere regressivo, sono andati a beneficio dei percettori di redditi più elevati e costanti nel tempo. Inoltre lo sviluppo di forme privatistiche ha assunto spesso carattere sostitutivo piuttosto che integrativo rispetto ai servizi pubblici erogati, favorendo i più abbienti. Discrasie quali tempi di attesa delle liste di prenotazione e aumento dei ticket hanno addirittura reso più conveniente il ricorso ai servizi della sanità privata, trasferendo risorse a vantaggio di questa.

Anche riguardo alla previdenza vi sono aberrazioni in termini di equità. In un contesto del mercato del lavoro nel quale la precarietà non consente la continuità dei versamenti contributivi tanto pubblici che privati,  le stime effettuate lasciano prevedere, al termine della vita di lavorativa, livelli pensionistici addirittura inferiori alla sussistenza per molti dei pensionati a venire. Il sistema privato non è stato dunque in grado di compensare le minori prestazioni pubbliche.

Sui lavoratori pesa anche il fatto che la parte di salario erogata sotto forma di Welfare Occupazionale crea benefici alle imprese anche sotto forma di minori contributi previdenziali, con effetti sulle prestazioni pensionistiche.

Dei regimi privatistici si sono avvantaggiati intermediari finanziari e assicurativi, con prodotti nuovi, in linea con la tendenza alla finanziarizzazione dell’economia nei primi due decenni del secolo. La loro efficienza non ha raggiunto i risultati attesi, in termini di rischio/rendimento e di costi di gestione dei fondi, con la crisi economica che ha peggiorato la situazione.

I fondi pensione privati hanno accumulato negli anni un ammontare pari a circa 160 miliardi di euro, di cui 110 risultano investiti sui mercati finanziari esteri. Ciò ha sottratto risorse per investimenti in infrastrutture nazionali (scuola, sanità, trasporti) che avrebbero potuto ammodernare il nostro sistema socio-economico.

Nel contempo, non si sono realizzate condizioni di reciprocità da parte di fondi pensione esteri, date le minori occasioni di investimento nel nostro sistema composto di imprese di piccola dimensione e il minor spessore dei nostri mercati azionari.

Le politiche del lavoro

Aver puntato sulla riduzione del costo del lavoro anche mediante la diffusione di siffatti strumenti di Welfare ha accresciuto gli effetti della crisi, sottraendo risorse per incentivare gli investimenti, specie in innovazione. Oggi scontiamo ritardi strutturali in termini di digitalizzazione e di consolidamento delle organizzazioni produttive, come  dimostra la frammentazione delle pmi e la mancata riconversione di importanti apparati produttivi. Ne ha risentito anche la formazione di capitale umano, non adeguato al bisogno di rinnovamento di cui tutti parlano.

Il Rapporto dedica una parte rilevante al tema dell’istruzione che vede l’Italia in una posizione che conferma il minor valore attribuito dal sistema produttivo al grado di scolarizzazione, riflettendosi nella più bassa percentuale di laureati rispetto a molti paesi europei.

Le scelte compiute sono responsabili di svantaggi competitivi, che si compendiano in una minore produttività.

Il Welfare Occupazionale è dunque il terreno sul quale si è consumata una distribuzione di benefici a carico della fiscalità generale andati sempre più a vantaggio delle imprese e di una quota decrescente di lavoratori a tempo pieno.

Su questo obiettivo sono convenuti gli interessi poco lungimiranti di datori di lavoro e organizzazioni sindacali, contribuendo alle crescenti disuguaglianze sociali e al minore rendimento del capitale sia fisico che umano.

Reddito di cittadinanza

Il Rapporto è diviso in quattro capitoli principali: Il Welfare Occupazionale, Lo stato sociale in Europa, Lo stato sociale in Italia, Il sistema previdenziale italiano. Tramite il loro articolato sviluppo, al quale hanno collaborato una trentina di ricercatori, si evidenziano altri importanti ritardi rispetto ai nostri competitor.

Nel distribuire reddito di sostegno alla parte più povera siamo arrivati ultimi in Europa, partendo dal reddito di inclusione che poneva l’Italia tra i paesi della fascia più bassa (0,20 del PIL). Il reddito di cittadinanza rappresenta ora lo 0,40, inserendoci nella fascia media, ancora lontana dai paesi con maggiore attenzione ai cittadini più poveri quali Olanda e Germania.

Vi sono ancora incertezze sulla portata dell’intervento osservando la sfasatura tra il numero dei cittadini di cui si prevedeva l’accesso alla provvidenza e quello effettivo. Ciò genera  dubbi sulla dimensione dell’economia sommersa e sono da valutare compiutamente i rischi di comportamenti opportunistici, tipici in questa forma di aiuto.

Sul piano economico, il moltiplicatore di spesa per trasferimenti è comunque minore tra tutte le altre forme di spendita di risorse pubbliche.

Proposte di policy sociali

La critica di maggior respiro rispetto a queste politiche sociali riguarda il fatto che esse non hanno mai avuto carattere strutturale, ma natura occasionale spesso per acquisire consenso politico/elettorale. Il fatto di aver preferito il Welfare Occupazionale puntando sulla riduzione del costo del lavoro, il grande spauracchio degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ha disincentivato modalità più durature ed efficaci quanto a crescita e contenimento delle disuguaglianze.

Il Rapporto propone un sistema pensionistico garantito che possa tenere pensioni e salari in rapporto costante, assorbendo a carico del sistema pubblico i periodi di mancati versamenti di contributi per la saltuarietà dei periodi di lavoro per la parte dei lavoratori precari. D’altro canto i trattamenti pensionistici privati si applicano soltanto a chi ha un lavoro stabile, contribuendo al divario sociale.

Risparmi dovrebbero essere ricercati anche attraverso il consolidamento dei fondi pensione privati ora invero numerosi e di dimensione unitaria non in grado di generare economie di scala.

Un commento

Quanto avvenuto per le politiche sociali di questi anni ha costituito un vincolo sempre più rigido allo sviluppo. Se a questo si aggiungono le azioni fallimentari nel recupero della evasione fiscale (intorno ai 110 miliardi annui) e le risorse pubbliche assorbite dal salvataggio di alcune importanti banche, abbiamo le componenti con le maggiori conseguenze in termini di scompensi sociali.

Condividiamo quindi l’obiettivo del Rapporto di porsi come strumento di solida conoscenza di fenomeni troppo spesso lasciati alle polemiche di superficie del dibattito politico e al pungolo di maniera della stampa. Ci auguriamo che questa analisi diventi punto di riferimento di politiche sociali correttive a carattere strutturale, dato che sono molti coloro che pagano sulla propria pelle scelte in controtendenza con gli interessi generali del Paese.

Il declino del sistema economico-sociale, di cui sono evidenti le prove, trova fondamento nelle emergenze di bilancio presentatesi sistematicamente ai numerosi governi di ogni riferimento politico negli ultimi venti anni. Sulla impellente necessità di riaggiustare un po’ il debito pubblico, in questi giorni si torna a parlare di condoni fiscali, consentendo favori a chi si è già ritagliato benefici a proprio uso e consumo. La storia si ripete e poco lascia intendere che si imbocchi una via sostanzialmente diversa dal passato.

 

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