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La nuova questione meridionale. Morire di aiuti al Sud

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Il libro

Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche al Sud (e come evitarli) è il libro pamphlet scritto da due economisti Antonio Accetturo e Guido De Blasio per i tipi di IBL Libri. Riapre la questione meridionale con la forza dei numeri e la passione civile degli autori.

La riaprono sotto due aspetti. Il primo riguarda i risultati fallimentari delle politiche meridionaliste degli ultimi 25 anni. Scarsa efficacia degli interventi di spesa, pubblica amministrazione poco attenta o peggio, infiltrazioni criminali sono i fattori che hanno determinato la dèbacle. Il Nord non è l’Eldorado, ma è un passo avanti o forse molti di più rispetto al Sud.

Il secondo aspetto è che fare ora del nostro Meridione. Domanda che acquista una inevitabile attualità alla luce del dibattito, spesso farneticante, sull’autonomia differenziata delle Regioni italiane. Le Regioni del Sud si sentono scippate e quelle del Nord ritengono che le risorse ivi prodotte debbano restarvi. Difficile trovare un punto di equilibrio soprattutto se prevalgono ondate di demagogia e di rivendicazionismo. Indubbiamente, però, lo scontro sul federalismo differenziato è la continuazione della questione meridionale.

Lascio al lettore, se ha curiosità, di scoprire le cause di un tale fallimento. Il libro è ricco di informazioni, statistiche, fatti (i fondi strutturali europei, i finanziamenti per la ricostruzione in Irpinia, la Cassa per il Mezzogiorno) che presentano un quadro drammaticamente negativo di anni e anni di interventi di vario tipo nell’area meridionale del Paese. Semmai sarebbe interessante capire un tale flusso di denari, un fiume d’oro, colato per anni dappertutto, dove sia realmente finito.

Il futuro del Sud

Mi interessa molto, invece,capire il futuro che attende il Sud. E mi piace farlo riprendendo le parole scritte da Nicola Rossi nella prefazione al libro.

Da qui l’invito conclusivo: «Il futuro delle politiche pubbliche territoriali dovrà essere molto differente rispetto al passato». Mi permetto, sommessamente, di dubitare e di dissentire. Di dubitare che sia possibile un disegno puntuale, scientificamente fondato, compiuto in ogni suo aspetto di molte politiche pubbliche. L’idea che il fine tuning sia una pia illusione non mi sembra si possa confinare al campo delle politiche macroeconomiche. E di dissentire circa l’opportunità di ipotizzare una nuova stagione di politiche territoriali.

Da meridionale tendo a pensare che l’unico futuro possibile per le politiche territoriali–se si ha a cuore il Mezzogiorno–sia la loro eliminazione tout court almeno fino a quando, privata dell’acqua in cui vive e prospera, l’attuale politica locale unitamente alle rilevanti burocrazie locali e nazionali non si saranno estinte e con esse la sottocultura che hanno giorno dopo giorno contribuito a diffondere. Fra i tanti titoli di merito del volume di Accetturo e de Blasio questo va sottolineato fino alla nausea: diversamente da quanto spesso si vuol fare credere, l’evidenza empirica ci mostra che da una scelta di questo tipo i meridionali non avrebbero nulla da temere e nulla da perdere. Al contrario.”

E’ una visione, per certi versi,  nuova ed interessante. Riapre e chiude la questione meridionale con tutti i suoi addentellati, le sterili polemiche, i defatiganti tentativi di vederla sotto altra luce. Proviamo a ripartire da questa lucida argomentazione. Aggiungo due considerazioni tratte dalla mia esperienza di vita e professionale.

Gli aspetti sociali non sono meno importanti dell’economia

Chiunque dei miei conoscenti o amici che ha scelto negli anni ‘60 e ‘70 di lasciare il Sud non si è poi pentito di averlo fatto, anzi. Il titolo di studio è ovviamente importante perché permette di avere migliori opportunità di lavoro e di inserimento sociale. Così è stato per noi. Non è tuttavia determinante come spesso vogliono far credere, soprattutto oggi. Bisogna imparare a creare ricchezza non ad appropriarsene attraverso la finanza e le cosiddette professioni liberali.

E comunque non c’è alcuna ragione per avere una struttura universitaria, un ospedale, un lavoro in quasi ogni provincia d’Italia, Sud compreso. Nella mia personale statistica, la maggioranza della mia generazione si è spostata dal Sud al Centro Nord, in prevalenza Roma, altri ancora al Nord. Nulla di traumatico, perché a differenza delle precedenti generazioni che si spostavano all’estero e per sempre, la mia reputava la partenza come una estensione naturale del mercato del lavoro. Gli altri servizi essenziali erano una conseguenza normale, ci seguivano. L’andar via era in sostanza espressione di una ritrovata e per certi versi auspicata mobilità territoriale e sociale. E oggi? Non è cambiato molto a testimonianza che l’aridità dei numeri del libro porta in evidenza il fallimento delle politiche di intervento nell’arco di una intera generazione, la mia. Difficile porvi rimedio anche perché i divari regionali, misurati dal reddito pro capite, in tutti questi anni sono aumentati notevolmente.

La seconda considerazione è che vi sono tantissime ragioni per assistere chi ha condizioni di partenza svantaggiate come poteva essere il Sud dopo l’unità d’Italia. La prima pagina de “La Voce” di Giuseppe Prezzolini del 1911 ne elenca molte. In alto, riporto l’incipit e chi volesse può recuperare l’intero articolo. Ci racconta che il Sud arriva tardi nella Storia moderna, a differenza del Nord. E’ un vulnus enorme forse legato alla dominazione spagnola a Napoli e nel Sud. Caduto nel 1861 Francesco II non ci può essere una qualche eredità da raccogliere e salvaguardare. Giustifica ovviamente nella ritrovata unità del Paese politiche attive di natura infrastrutturale e sociale.

Ma non può durare per sempre. E’ un argomento che anche gli autori del libro sottolineano efficacemente riprendendo tesi dello studioso americano Robert Putnam sul capitale sociale. In Italia lo identifichiamo nei liberi Comuni della emergente borghesia settentrionale, nelle Repubbliche medievali, nelle numerose Signorie del Quattrocento e Cinquecento, e nelle potenti istituzioni oligarchiche di Venezia. Secondo questa visione,  i Comuni e le altre istituzioni sono espressione della borghesia libera e illuminata rispetto al mondo feudale. Essi hanno rappresentato un possente fattore di sviluppo economico e sociale, che nel Meridione è mancato. Il modello socio-politico del Sud ha conculcato tutte le forze dinamiche che avrebbero potuto esplicarsi con gli stessi effetti del Nord. Dal notabilitato ottocentesco a quello odierno.

Vi sono motivi storici, dunque, e tante ragioni, ma il punto è che un modello di assistenza indifferenziata del genere descritto dagli autori non può continuare per sempre. Finiscono le risorse soprattutto in una epoca di crisi economica perdurante come non mai nel nostro paese. Solo la creazione di ricchezza può risolvere i problemi dei divari territoriali e chiudere questa lunga, lunghissima transizione della nostra società verso un paese ed una economia moderna. Infine, teniamo in mente contro i nuovi profeti della dissennata spesa pubblica al Sud che si può anche spendere poco e bene. E su questo punto non dovrebbero mancare assunzioni di responsabilità delle classi dirigenti, che continuano invece a implorare di dar loro ancora più mezzi.

In conclusione, possiamo affermare che il Sud ha ancora oggi vaste aree di arretratezza, ma che la mobilità territoriale di una quota non marginale di residenti ha supplito alle tante ed ataviche carenze nel campo del mercato del lavoro, dell’istruzione e della sanità.

 

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