Home Europa Causa virus, perché non chiudiamo anche gli osservatori economici?

Causa virus, perché non chiudiamo anche gli osservatori economici?

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Rapporto CERGAS Bocconi (2019)
Tempo di lettura: 4’. Leggibilità ***.

L’inefficacia della spesa pubblica.

Con l’epidemia in corso, stiamo tutti comprendendo che cosa significhi avere una spesa pubblica inefficace, nonostante un debito pubblico tra i maggiori al mondo.

Finora è sembrata questione per addetti, politici, studiosi, intenti a misurare scostamenti, barcamenandosi tra riduzione del deficit, rinvio di clausole di salvaguardia, continui aggiustamenti di bilancio.

Ora il significato è chiaro anche alla gente comune. La spesa pubblica per quanto enorme non è stata sufficiente per contrastare lo sfascio del territorio e le emergenze dei terremoti, per consolidare le fragili strutture dell’edilizia scolastica e di quella carceraria, per controllare le mancate manutenzioni di ponti e autostrade.

La bestia mai domata ci si para ora di fronte con la inadeguatezza delle infrastrutture sanitarie, per quanto davanti a un evento epocale.

La spesa sanitaria italiana pro-capite e’ tra le più basse d’Europa, come si legge chiaramente nel grafico in alto, anche se non c’è bisogno di statistiche. Possiamo costatarlo infatti sulla nostra pelle. Mancano i letti e le apparecchiature per le terapie intensive. Le cure non sono fruibili in misura paritaria nelle varie parti del territorio. Si deve migrare dal Sud al Nord per inseguire la qualità delle prestazioni. Ci sono carenze strutturali nelle compagini dei medici e degli infermieri.

Stante questo quadro, è difficile capire il bisogno di accurate analisi economiche o di minuziosi elenchi da spending review, in cui, senza risultati, sono state impegnate per anni le migliori menti della nostra generazione.

Per spiegare il Paese bastano pochi conti all’ingrosso, da cui ognuno può ricavare il proprio giudizio sulle politiche economiche, industriali, bancarie degli ultimi anni.

Quattro numeri

Vediamoli dunque questi quattro numeri.

Il primo è quello dei governi succedutisi negli ultimi 10 anni.

Si tratta di otto formazioni, in media una per ogni 15 mesi, d’ogni carattere politico. Berlusconi (centro destra, eletto), Monti (tecnico, non eletto), Letta (centrosinistra eletto), Renzi (centrosinistra, non eletto), Gentiloni (centrosinistra, non eletto), Conte 1 (populista/sovranista, eletto), Conte 2 (populista di sinistra, non eletto) e ora Conte ter (di autopromossa coesione nazionale, non eletto). Nessun altro Paese ha conosciuto un tale avvicendarsi di governi, accompagnato dal rifiuto di tornare alle urne anche di fronte a improbabili coalizioni, a giochi di palazzo o a irragionevoli personalismi. Mentre si evitava la prospettiva di elezioni politiche, si creava lo scenario di una perenne campagna elettorale.

Questo andazzo non è stato neutrale in termini di debito pubblico.

Le politiche del consenso hanno fatto leva su una spesa centrata sul sostegno dei consumi a basso effetto moltiplicatore sul Pil, invece che sugli investimenti pubblici, di cui tutti predicavano la necessità.

Le elargizione di benefici tramite reddito di inclusione, reddito di cittadinanza, quota 100 et altro ha assorbito 20 miliardi. Alla gestione delle immigrazioni sono stati assegnati nel tempo un’altra ventina di miliardi.

Passando alle banche, non pochi salvataggi hanno richiesto l’utilizzo dei soldi dei contribuenti per alcuni miliardi.

I settanta miliardi di cantieri pronti a partire sono invece sempre là, come simbolo di impotenza politico-amministrativa. C’è chi sostiene che questi investimenti potranno partire quando saremo sicuri di aver debellato la corruzione e le organizzazioni malavitose.  Siccome siamo ai primi posti della relativa classifica mondiale ogni previsione resta sospesa.

Altro grande numero delle peculiarità nazionali è l’evasione fiscale, pari a 110 miliardi annui, che non accenna a diminuire. Si sono sprecati fiumi di parole, con la pretesa di aver trovato ogni volta la pietra filosofale per ridurla.

L’elenco delle sofferenze più cospicue riguardano la sanità, la scuola, l’innovazione, vale a dire i punti di merito d’ogni paese.

La cultura dell’emergenza

Mentre eravamo impegnati a far quadrare senza successo o a dissestare con successo questi sgangherati conti nazionali, ecco piombare la questione del virus, che ha subito evocato la nostra predisposizione alla cultura dell’emergenza. Sembra che soltanto essa sia in grado di stimolare le nostre virtù sociali, facendoci diventare popolo e nazione. I comportamenti individualistici, impossibili da governare in tempi normali, si sciolgono in un unico afflato solidaristico, che ci fa sentire tutti compresi delle difficoltà del momento. Generosità, altruismo, abnegazione, sacrificio, senso del dovere e spirito di comunità emergono quasi fossero un fiume carsico che, scorrendo per tanto tempo nascosto, fuoriesce finalmente alla luce del sole. I comportamenti opportunistici si disperdono e la potenza salvifica di questo gorgo ci trascina, facendoci superare il malanno del momento, per restituirci soddisfatti alle nostre cure di sempre. Compresa quella di scordare presto di chi ha avuto e di chi ha dato.

Noi ovviamente ci auguriamo di farcela rapidamente anche questa volta e plaudiamo al senso di ritrovato civismo.

Questa volta c’è però un filo rosso che ci legherà ancora più strettamente al passato, impedendoci di dimenticare le angosce che ora ci prendono. Si chiama debito pubblico questo filo rosso, che sarebbe meglio immaginare come robusta corda, che ritroveremo più consistente di prima. Perché al di là delle convenzioni che consentiranno al momento di non contabilizzare nei vincoli europei la maggiore spesa emergenziale, ci troveremo comunque sul groppone un fardello più pesante, da sezionare, misurare, valutare nelle sue correzioni, per capirne il freno alla ripresa.

Ricomincerà il carosello degli zerovirgola e la ricerca proustiana di tempi per sempre perduti.

Spendere strutturalmente per la sanità

Crediamo che una cosa sia da fare al più presto. Quella di tracciare scenari economici, invece che disperdersi in fribillanti balletti di cifre, in attesa del prossimo post hoc, ergo propter hoc. Se ciò è accaduto, vuol dire che doveva accadere.

A rischio di ripeterci, la scarsa attenzione dedicata negli ultimi dieci anni alla spesa sanitaria (qui il link a uno dei pochi documenti, appena pubblicato) la dice lunga sull’appeal per analisi economiche che non si pongono la questione di calcolare gli effetti dei mancati provvedimenti sulla società, dimenticando che la scienza economica non è nulla se non è economia politica.

E dagli scenari possibili difficilmente potremo ora escludere quello dell’intervento del Fondo Salva Stati, affinché la ripresa possa contare su un vero e proprio shock. Questo è forse ciò a cui si allude quando si scomodano i paragoni con Winston Churchill e le sue promesse di lacrime e sangue? Ah, saperlo! Chi vivrà, vedrà.

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