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L’invenzione dell’Agricoltura

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Plinio Nomellini, Il fienarolo (1888)
Tempo di lettura 7’. Per gustarvi le bellissime foto alla fine, altri sette. 

Storie di millenni. 

L’invenzione dell’agricoltura vale a dire la scoperta che le essenze vegetali si possono non solo raccogliere così come spontaneamente crescono, ma anche coltivare e selezionare, avvenne forse per caso, là dove particolari condizioni climatiche lo permisero. Solo attente e ripetute osservazioni poterono però consentirne lo sviluppo.

Quando ciò si è verificato non è dato sapere con esattezza: gli studiosi hanno creduto di individuare otto-diecimila anni fa le forme più antiche di agricoltura attuate tra l’altipiano della Mesopotamia settentrionale e l’Egitto, la cosiddetta Mezzaluna Fertile e tra i Sumeri rappresentanti della prima civiltà stanziale della storia.

La Mezzaluna fertile

Certamente, diversi furono i tempi, oltre che i modi di sviluppo, secondo i luoghi e i popoli. Se in buona parte dell’Europa occidentale le prime forme di agricoltura sembrano risalire al quinto millennio a.C. (periodo neolitico), certe popolazioni non giunsero a praticare tale attività che in epoca storica, talora in tempi assai vicini a noi.

La più straordinaria delle invenzioni

Invenzione straordinaria, forse la più straordinaria della storia dell’uomo, l’agricoltura segnò il passaggio dallo sfruttamento puro e semplice delle risorse naturali (mediante la caccia, la pesca, la raccolta) alla produzione diretta dei mezzi di sussistenza.

Praticando l’agricoltura, l’uomo per la prima volta assunse un atteggiamento creativo nei confronti delle forze naturali, sottoponendole a controllo per utilizzarle a proprio vantaggio: le modificazioni dell’ambiente, le sistemazioni del suolo, (livellamenti, terrazzamenti) e del regime idrico (di scolo nelle zone troppo ricche di acqua; di irrigazione, nelle zone troppo asciutte), portando ad una trasformazione del territorio, rappresentò la prima forma di intervento attivo dell’uomo nell’assetto del paesaggio.

Le piante coltivate in quanto l’alimentazione si accompagnarono, spesso, con quella di domesticazione degli animali: attività che si trovarono (pur in una estrema varietà di situazioni locali) il più delle volte affiancate, come espressione di atteggiamenti mentali e di attitudini operative analoghe.

L’agricoltura portò trasformazioni decisive negli assetti sociali dei diversi popoli. Essa permise l’accrescimento numerico della popolazione, consentendo di ottenere, a parità di superficie, una quantità di cibo assai maggiore di quella fornita dalla caccia e dalla raccolta. Ma soprattutto, la pratica dell’agricoltura fu collegata al fenomeno della sedentarietà, il legame degli uomini a un territorio definito e permanente, in luogo del nomadismo.

Esistettero nei primi tempi di esercizio delle attività agricole stadi intermedi fra il nomadismo e la sedentarietà, vuoi per la radicata affezione alle primordiali attività di caccia e di raccolta che continuarono a lungo a coesistere con l’agricoltura, vuoi per la necessità di trovare sempre nuovi spazi da mettere a coltura.

Il rinnovo delle colture

Il sistema delle colture temporanee continuamente rinnovate dovette essere largamente praticato, nella misura in cui l’abbondanza di spazio rispetto al numero degli uomini lo consentiva. Poi, col crescere della popolazione e l’affinarsi dell’esperienza il problema della fertilità dei suoli venne affrontato in modi diversi: con tecniche elementari di concimazione (a cominciare da quella, antichissima, del debbio, o dell’abbruciamento delle stoppie, che si traduce in arricchimento organico del suolo) e, come tutti sanno con il letame, composto dagli escrementi degli animali d’allevamento, in genere ovini, caprini, bovini ed equini, che si raccoglievano insieme alla lettiera (materiale, costituito da paglia, foglie, strame e torba), disposta negli stazzi dove riunivano il bestiame durante la notte.

Con l’invenzione del sistema di avvicendamento delle colture, che consentiva ai campi di ritrovare la fertilità mediante riposo, si ebbero le lavorazioni superficiali del terreno mediante aratura. Effettuata dapprima in modo esclusivamente manuale, con strumenti rudimentali e più tardi con zappe e vanghe, questa venne in seguito compiuta, anche se non dappertutto e con scarti temporali notevoli, mediante strumenti a trazione animale, aratri più o meno complessi a seconda dalle capacità tecniche e delle esigenze dei suoli.

I primi prodotti agricoli che l’uomo imparò a coltivare furono i cereali. Nelle zone mediterranee ebbe particolare importanza il grano, mentre nelle regioni a clima più caldo e umido si coltivò il riso e in quelle più fredde si diffusero avena e segale.

L’orzo si diffuse ovunque, perché era cereale capace di attecchire anche in terreni poveri. Assieme ai rudimentali strumenti agricoli sono stati trovati resti di cereali in antichissime capanne e palafitte e dell’uso del grano nella alimentazione umana parlano antiche religioni in reperti di migliaia di anni fa.

In Toscana recenti scoperte archeologiche hanno messo in luce l’esistenza di comunità contadine di almeno seimila anni fa con economia basata su allevamento di capre, bovini e maiali e coltivazione di due qualità di grano e altrettante di orzo. Le specie di frumento coltivate presentano un gran numero di varietà con caratteristiche particolari che le rendono adatte a terreni e climi diversi. Fu l’inizio della genetica degli incroci di specie e varietà per costruire razze cosiddette elette, cioè con caratteri di particolare adattabilità alle più diverse situazioni, capaci di ottimi risultati in condizioni ambientali ad esse favorevoli.

La rotazione agraria

L’avvicendamento colturale è una tecnica agronomica adottata in agricoltura che prevede la variazione della specie agraria coltivata nello stesso appezzamento, al fine di migliorare o mantenere la fertilità del terreno e garantire, a parità di condizioni, una maggiore resa. Si contrappone alla tecnica della mono successione, che consiste nella ripetizione sullo stesso appezzamento della coltura effettuata nel ciclo precedente.

La natura stessa, con il succedersi delle stagioni e il trascorrere degli anni, ci permette di osservare come la vegetazione di una determinata famiglia di piante erbacee finisca per lasciare il posto ad altre, diverse, non trovando più nel terreno le condizioni favorevoli alla crescita.

In seguito, verificandosi di nuovo condizioni ideali allo sviluppo delle prime, queste appariranno ancora sullo stesso terreno e così via. Si tratta di un fenomeno naturale di piante erbacee spontanee che l’uomo, volendo, rende artificiale per quelle coltivate, al fine di stabilire una successione ordinata in base a turni prestabiliti che dal punto di vista nutritivo tengono conto delle diverse esigenze dei singoli vegetali. Tutto ciò permette di ottenere produzioni relativamente costanti, favorendo anche una migliore distribuzione dei lavori durante l’annata.

Bisogna tener presente che coltivare una stessa pianta erbacea più volte di seguito sul solito appezzamento finisce per impoverire il terreno di qualche elemento nutritivo, il che la rende incapace di vegetare nel modo migliore, assoggettandola a malattie, a insetti dannosi o malerbe infestanti.

Con la rotazione, alle graminacee, che assorbono molto azoto che vi penetra con l’apparato radicale nella parte superficiale del terreno, subentrano le leguminose che al contrario fissano l’azoto nel terreno, spingendo le loro radici fittonanti in profondità.

Girasoli in Maremma

Uno sfruttamento razionale del terreno richiede piante preparatrici (mais, barbabietola, canapa, fava, patata) atte a creare condizioni ideali a dare avvio a un nuovo ciclo. Per questo motivo sono anche chiamate colture da rinnovo. Altre specie permettono di migliorare il terreno, arricchendolo, e appartengono alle cosiddette leguminose da foraggio (trifoglio, lupinella, erba medica, sulla).

La preparazione e l’arricchimento del suolo determinato dalla coltivazione di tutte queste piante erbacee consente un ideale sviluppo dei cereali (grano, orzo, segale, avena) la cui azione è tesa a fruttare al massimo il terreno assorbendone i principali elementi nutritivi quali azoto (N), fosforo (P), potassio (K), detti anche macroelementi, in quanto assorbiti dalla pianta in grande quantità, ed inoltre magnesio (Mg), calcio (Ca), zolfo (S), detti elementi secondari o mesoelementi. Tra i microelementi, cosiddetti perché assorbiti in piccolissime quantità, assume importanza il boro (B).

Sulla base dei dati emersi dall’inchiesta Jacini promossa dal Parlamento un secolo e mezzo fa, in Toscana su un terzo delle superfici agrarie si coltivava granturco, un altro terzo era lavorato a maggese e lasciato a riposo, mentre la rimanente parte era occupata da frumento (con la pratica del ringrano), da prati artificiali di erba medica, trifoglio e altre colture da rinnovo.

Queste ultime consistevano soprattutto sulla semina di fave su terreni lavorati in profondità. Il frumento costituiva la base dell’alimentazione dei contadini e era coltivato almeno ogni due anni sullo stesso terreno, ad eccezione delle zone poco fertili (crete senesi, pianura maremmana e zone montuose) nelle quali era d’obbligo il riposo o il maggese.

Poco frequente era l’avvicendamento quadriennale, mentre quello triennale con il ristoppio (due anni a grano) trovava diffusione nei terreni migliori “alluvionali” della Val di Nievole, della provincia di Firenze e delle colline pisane.

Nella Val di Chiana, basso Casentino, Valdarno, pianura pisana si andava introducendo la rotazione quadriennale.

La rotazione biennale rimaneva comunque la più praticata restando tutti gli altri sistemi (comprese le colture irrigue in uso nelle campagne lucchesi e quella alternata con l’allagamento invernale nella pianura aretina) soltanto eccezioni.

Il Maggese, ovvero le parole in agricoltura

Il maggese è terreno agrario tenuto a riposo, o opportunamente lavorato, affinché riacquisti la sua fertilità.

Il maggese, il maiale, la madre di Mercurio. Sembrano “parole in libertà” e pure sono legate da un filo comune, anche se esile: il dio caro ai commercianti aveva infatti madre Maia e pare proprio che maiale fosse il nome attribuito al porco castrato grasso che veniva sacrificato alla dea. Anche il quinto mese dell’anno maggio, si chiama così perché connesso alla dea Maia. Non devono stupire le due g. 

È il destino toccato anche alle altre parole lettere tra due vocali: così pejus diviene peggio e maius diviene maggio. Maggese era originariamente un aggettivo che significava “relativo al mese di maggio” e in agricoltura si applicava a diversi prodotti che si ricavavano in quel mese: lana maggese, fieno maggengo e anche campi maggesi per indicare quelli che, notava il Niccolò Tommaseo, “lasciati un anno senza semente e vangano o arano in maggio per poi seminarli in autunno”.

Quest’ultimo caso doveva probabilmente essere quello più frequente, tanto che gli venne concessa una “riduzione”: non fu un trattamento di favore, ma una disposizione generale per cui, quando è in aumento la frequenza d’uso di una coppia di parole il “termine più generale più essere eliminato e quello più specifico conservato come l’equivalente del tutto”: (pettinatura) permanente, (rivista) settimanale, (ferrovia di città metropoli) metropolitana e anche (campo) maggese. Così, promossi a sostantivi, i maggesi hanno continuato a scandire il tempo agricolo, anche se non sempre e dovunque con il ritmo biennale indicato dal Tommaseo: la rotazione tra campi lavorati e messi a riposo è stata in effetti risolta in più modi, come dimostra la pluralità di sistemi attestati in Toscana.

Statua di Cosimo Ridolfi restaurata dopo la bomba mafiosa all’Accademia dei Georgofili di Firenze del 1993

Desidero ricordare che fu l’Accademico dei Georgofili Cosimo Ridolfi (1794–1865), ad adottare per primo in Italia l’avvicendamento quadriennale di Norfolk, nei sui tenimenti in Val d’Elsa, adattandolo alla condizioni locali con la seguente successione: rinnovo – grano – prato artificiale di leguminose – grano. Questa tipica forma di rotazione quadriennale si diffuse nel resto d’Italia.

Norfolk è una contea dell’Inghilterra orientale dove un notevole progresso fu fatto con la così detta rotazione di Norfolk introdotta, agli inizi del 1700, dal visconte di Townshend. Questa rotazione quadriennale prevedeva la seguente successione per specie erbacee che crescevano nel clima di quelle latitudini”: frumento, rapa, orzo, trifoglio.


Rotazioni più lunghe

Col passare dei decenni sono state introdotte e gradualmente applicate rotazioni basate su numero di anni sempre maggiore, fino a dieci, ottenendo così un giusto equilibrio fra le colture miglioratrici e le sfruttanti, abbondanza di foraggi e una conveniente superficie a frumento. Così la rotazione quadriennale, fino a un secolo fa comunemente praticata in Italia, ha ceduto il passo a rotazioni più lunghe, cominciando dalle unità poderali più estese.

La stessa propaganda per la “battaglia del grano” degli Anni Trenta partì dalla considerazione che nelle zone d’Italia dove le unità colturali erano particolarmente vaste (oltre venti ettari), il contadino si trovava di fronte ad estensioni che, per quanto numerosa fisse la sua famiglia, gli era impossibile ottenere una lavorazione profonda e accurata del terreno come invece si richiede per una buona produzione di frumento.

Pesticidi al posto della rotazione? No!

Fin da allora la tendenza si orientò nello scegliere e mettere in pratica un tipo di rotazione capace di diminuire la superficie coltivata del grano e delle colture da rinnovo che richiedevano lavorazioni accurate e numerose.

In questi ultimi tempi, a seguito di fattori di evoluzione dell’agricoltura, senza voler effettuare una sistematica analisi dei fenomeni, può essere utile individuare alcuni aspetti, in quanto correlati alla problematiche del mercato fondiario. A questi si sovrappongono peraltro altri aspetti, che potrebbero essere definiti “esogeni” in quanto esterni al settore e connessi più in generale allo sviluppo economico.

I terreni, specialmente quelli di pianura, hanno finito di essere coltivati a monosuccessione colturale “alla disperata, dovendo produrre sempre di più a tutti i costi.

Come conseguenza si è stati costretti a ricorrere a insetticidi e pesticidi di sintesi che a causa della loro tossicità ci sottopongono a grave rischio per la nostra salute.

La difesa dalle erbe infestanti è da tempo affidata ai diserbanti sempre più tossici come soluzione idonea per le “supererbacce”, che ha sostituito completamente all’avvicendamento colturale, e i contadini che una volta in folte schiere e armati di falcesalvaguardavano le colture. Dettare regole di rispetto delle rotazioni agrarie significa anche proteggere la nostra salute alimentare.

E ora gustatevi queste suggestive immagini dell’Agricoltura siciliana, Parco delle Madonie, Palermo, dell’amico Salvatore Clemente

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9 COMMENTS

  1. Un bellissimo racconto per parole, immagini, spiegazioni e rievocazioni, che ricorda le nostre origini materiali e culturali. E indirizza il nostro futuro.

  2. Caro Daniele,
    grazie davvero per la tua recensione positiva. Sono felice di leggere le tue parole.

  3. Complimenti e grazie all’autore per questa interessantissima e dotta ricostruzione su un settore così fondamentale è prezioso per la storia dell’umanità e per la sua medesima esistenza!

  4. Quando ha inizio la storia della domesticazione degli animali?
    Tutte le specie domestiche più importanti sono state addomesticate molte migliaia di anni fa. Si ritiene che il primo animale domestico sia stato il cane, “adottato”, secondo alcuni studiosi, 100 mila anni fa. La teoria più comune parla invece di 14 mila anni fa circa. I successivi animali (la capra, la pecora, i bovini e il maiale) furono invece addomesticati intorno all’8000 a. C. in varie località dell’Asia e del Vicino Oriente “Mesopotamia”.
    La maggior parte della domesticazione degli animali e piante ha inizio nel Neolitico, periodo storico che risale a oltre 10.000 anni fa, quando ciò si è verificato non è dato sapere con esattezza: gli studiosi hanno creduto di individuare otto-diecimila anni fa le forme più antiche di agricoltura e pastorizia (allevamento del bestiame spec. Ovini e lo sfruttamento dei relativi prodotti, in quanto fatto economico e culturale sul piano etnologico) attuate tra l’altipiano della Mesopotamia settentrionale, tra il Tigri, l’Eufrate e l’Egitto, la cosiddetta Mezzaluna Fertile e tra i Sumeri rappresentanti della prima civiltà stanziale della storia.
    La storia della domesticazione degli animali ha interessato numerose specie (piccoli ruminanti pecore e capre non condividono le loro origini, eppure i loro percorsi evolutivi sono simili) e bovini. Questo fenomeno ha determinato lo sviluppo di diversi cambiamenti in questi animali in termini di aspetto fisiologia e comportamento, i quali sono ereditari. Sebbene tradizionalmente si pensasse che tali caratteri potessero essere acquisiti solo attraverso una selezione artificiale imposta dall’uomo, sembra che in molti casi di domesticazione animale si sia prodotto un mero adattamento della specie alla convivenza con l’essere umano.
    Presumibilmente durante la predazione si è verificato che è stata abbattuta una “fattrice” mamma con il piccolo in fase di svezzamento, nel clan vi erano sicuramente soggetti che avevano inclinazione verso la cura degli animali. Nella successive generazioni ai piccoli nati (agnelli, capretti, vitelli, maiali e puledri) con la presenza costante dei soggetti umani che li accudiva, ebbero una particolare forma di apprendimento che si realizza in un periodo determinato della vita (in genere subito dopo la nascita), detto fase sensibile o periodo critico, in etologia detto imprinting. Da li a poco questi soggetti umani si sostituirono al capo branco delle specie.
    L’imprinting è un particolare tipo di apprendimento per esposizione, presente in forme e gradi diversi in tutti i vertebrati. Serve a fissare una memoria stabile …
    In Europa l’introduzione delle pratiche di allevamento giunse dal Vicino Oriente durante il Neolitico insieme agli stessi animali domestici; sono stati riconosciuti in periodi successivi alcuni indizi di domesticazione locale di animali selvatici, come nel caso dei bovini nel Neolitico tardo dell’Ungheria e dell’Italia centrale. In qualche caso alcune specie domestiche tornarono allo stato selvatico, come, nel Mediterraneo, le capre delle isole di Creta e Montecristo o i mufloni della Sardegna e della Corsica.

  5. Immaginate una battuta di caccia tra il paleolitico e il neolitico da 35.000 a 10.000 anni fa (alla fine dell’ultima glaciazione), aver potuto filmare le immagini struggenti, che evocano quadri del nostro passato dove è dipinta la pietà e la sacralità della morte. Una madre abbattuta con armi primitive, che veniva “accaprettata” dai suoi carnefici per essere trasportata nelle capanne del neolitico, sotto gli occhi del loro piccolo, una scena tragica che evoca in tutti noi tristezza. Ma è così? Intendo è corretto attribuire un così pieno senso della morte agli animali? No operiamo forse su di loro un transfer della nostra consapevolezza della morte unitamente all’emotività che essa suscita. Forse è stato questo che indussero alcuni soggetti del clan che popolavano la terra del neolitico “che avevano predisposizione verso la cura degli animali” ad adottarli. Ma ancora una volta, forse, sono stati antropomorfizzati.
    E così avvenne il più grande cambiamento quando l’uomo inizia ad allevare gli animali e a coltivare la terra.

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