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C’è anche un Covid bancario?

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I tre Covid della Toscana
Non paia irriguardoso il paragone che ci è venuto alla mente, avendo appreso del passaggio della Toscana al terzo colore pandemico. Un percorso non invidiabile dal giallo, all’arancione al rosso iniziato e concluso in due settimane!
Le cause dovrebbero essere spiegate dalle Autorità che invece si sono finora limitate a esternare sentimenti di sorpresa e di mestizia, con qualche punta polemica verso il Governo.
Auspichiamo che, ove necessari, non manchino interventi concreti e rapidi di potenziamento dei mezzi di difesa (Ospedali Covid, posti letto in terapia intensiva, medici, tamponi, etc) da questo subdolo nemico.
Come nel resto del Paese, la drammaticità della condizione sanitaria va di pari passo con le condizioni di declino di un’economia fragile, che nel corso dell’ultima generazione ha perduto imprese importanti e ha visto prevalere modelli come quelli centrati sulle micro attività e sui servizi al turismo di massa esaltati come via virtuosa al benessere economico diffuso.
Esito: un Covid della produzione, con la sparizione di migliaia di unità produttive, per la crisi prima del virus e per quella durante il virus. Ma vi è anche un terzo Covid, di cui si stenta a prefigurare gli effetti sulla ripresa economica, quando il male fisico si sarà diradato.
In Toscana, si inserisce infatti, anche un Covid bancario, che rende incerte le prospettive della infrastruttura creditizia per soddisfare le esigenze dell’economia della regione.

Il colore della Toscana è forse rosso anche da questo punto di osservazione.

La banalità del male…bancario

In testa ai problemi abbiamo la crisi del Monte dei Paschi, la più lunga mai conosciuta, che richiede l’ennesimo aumento di capitale (si parla di due miliardi) a carico del bilancio statale, al solo fine di rispettare i requisiti per mantenere la licenza bancaria.

Il suo destino si giocherà tra restare banca pubblica o essere inglobata in una banca più grande, la quale valuterà probabilmente la convenienza se potrà contare su condizioni di favore, cioè ponendo l’onere del salvataggio a totale carico dello Stato. La distruzione di valore del Mps, da sempre banca di riferimento della regione, è arrivata finora alla bella cifra di una trentina di miliardi, più del doppio della voragine Alitalia.

La magistratura ha da poco condannato in primo grado i vertici della Banca chiamati al suo salvataggio nel 2014 per false comunicazioni sociali ed altri rilevanti reati societari. Se questi erano i salvatori della patria, sarebbe da chiedersi, aspettando tutti i gradi di giudizio.

Il contenzioso legale con gli ex azionisti, tra cui spiccano le cause promosse dalla Fondazione Mps contro la sua stessa ex creatura, cioè la Banca, ammontano ad alcuni miliardi, richiedendo a quest’ultima ingenti accantonamenti.

Tre anni fa è stata risolta la crisi della maggiore banca popolare, quella dell’Etruria, terza per dimensione, sparita nel ventre di Ubi, con azzeramenti di risparmio sottoforma di azioni detenute da migliaia di soci. Le vicende giudiziarie sono ancora in corso, anche attraverso la proposizione di class action. Si è intanto compiuto un altro passaggio con la scalata di Banca Intesa a Ubi, la quale, appena sostituite le insegne della Banca dell’Etruria con le proprie, dovrà smontarle perché Intesa possa issare le sue.

Ricordiamo che lo scorso anno Banca Intesa aveva portato a compimento l’incorporazione della Cassa di Risparmio di Firenze, seconda banca regionale per dimensione, di cui già deteneva la quasi totalità delle azioni.

Poco sappiamo ancora della strategia complessiva che l’incorporante avrà verso la potenziata rete toscana in rapporto alle esigenze di credito delle economie dei territori.

Anche per contrastare la posizione di Intesa nella regione è probabile che il salvatore del Mps sia Unicredit, il cui presidente in pectore Padoan, già Ministro dell’Economia, era, prima di dimettersi per il previsto nuovo incarico, deputato eletto nel Collegio di Siena.

Il territorio toscano diverrà in questo caso terreno competitivo tra le due maggiori banche italiane, segnando la fine del localismo.

Infatti anche il sistema bancario cooperativo, tuttora occupato a far sparire le bcc meno efficienti con operazioni di incorporazione, manifesta incertezze nella definizione delle strategie complessive dei Gruppi Bancari Cooperativi intorno ai quali si è raccolto.

Pochi giorni fa, l’ex Presidente del Credito Cooperativo Fiorentino, assurto nel tempo a personaggio di rilievo della politica nazionale, è stato condannato a oltre sei anni per la bancarotta, dichiarata qualche anno fa, della Bcc.

Chianti Banca che rilevò ciò che rimaneva della dissestata ‘Banca del Verdini’, come era chiamata, dovette essere abbondantemente finanziata dalle consorelle per inghiottire l’indigesto boccone. Successivi conflitti scoppiati nella gestione della Chianti stessa vedono in corso processi penali contro i vertici dell’epoca, con la Banca d’Italia costituitasi parte civile, per ostacolo all’attività di vigilanza. Nella costituzione di parte civile si sono da poco inserite anche organizzazioni dei consumatori.

Altre fusioni tra bcc toscane hanno messo in crisi le banche chiamate a far sparire le consorelle più deboli. I conti di queste operazioni non sempre si sono rivelati esatti. Vi sono altre debolezze tra le banche minori che risparmiamo ai lettori.

Al panorama aggiungiamo anche la impellente necessità di rilanciare l’azione di Fidi Toscana, la finanziaria regionale pubblica, secondo gli indirizzi, ancora non noti, che verranno impartiti dalla Giunta da poco eletta. Serviranno capitali pubblici adeguati, se vorrà avere un ruolo.

Volendo trovare una spiegazione alle tante crisi viene da indirizzare l’attenzione verso un’unica causa quella dei conflitti di interesse, intrecciati con la politica e con altre ragioni contrastanti con una sana e prudente gestione bancaria. Con questa chiave di lettura, le difficoltà dell’economia reale appaiono quasi come elementi secondari delle crisi bancarie rispetto al quadro che segna il fallimento del mercato del credito locale. Sta di fatto che la banca di distretto, locale, del territorio, dì comunità, o comunque la si voglia chiamare (in fin dei conti anche il Mps, per quanto un po’, più grande lo è) sembra essere implosa sulle sue stesse contraddizioni, attardandosi anche in riforme o altri tentativi non pienamente riusciti di rigenerarsi.

La banalità del male bancario si esplica per lo più secondo quanto avanti descritto e il giudizio della Banca d’Italia sulle piccole banche sembra definitivo. Ha scritto di recente il Governatore “Come abbiamo più volte ricordato, per molti intermediari le limitate dimensioni, insieme con la loro prevalente specializzazione, spesso non consentono di effettuare i necessari investimenti in tecnologia, innovare prodotti e processi, sfruttare economie di scala e di diversificazione. Le economie di scala sono specialmente evidenti al di sotto di una certa soglia dimensionale”.

Soluzioni

Un mutamento nel grado di concorrenza del mercato bancario toscano mediante il confronto atteso tra grandi banche non deve portare miglioramenti soltanto in termini di stabilità finanziaria. Deve assolvere a un compito di reindirizzo strutturale di buona parte del mondo produttivo, esercitando una più attenta capacità di selezione delle imprese e delle loro iniziative.

Ciò vorrà dire impegnarsi per la crescita dimensionale della piccola impresa, per indurre investimenti in innovazione, per spingere verso fonti di finanziamento alternative al credito bancario, per ottenere un maggior grado di apertura del capitale e modalità più efficaci di immissione di capitale umano adeguato anche dal punto di vista manageriale. La sfida è anche aperta sul finanziamento della economia circolare e sulla sostenibilità ambientale delle iniziative produttive.

Il confronto competitivo non dovrà quindi avvenire su obiettivi quantitativi ma qualitativi, facendo indossare alla economia reale della regione l’abito più adatto al suo sviluppo.

Il localismo bancario ha essenzialmente mancato in questo ruolo, non riuscendo nel compito del banchiere-eforo evocato da Schumpeter, perché da un certo momento in avanti la vicinanza al territorio da elemento di vantaggio informativo per una migliore selezione dei merito di credito, si è trasformato in conflitti di interesse che si sono scaricati sul patrimonio.

Resta un punto non secondario di questo auspicato cambiamento da tenere in considerazione. Che, se esso si realizzerà, non sarà attraverso un processo di mercato, ma grazie al denaro pubblico.

Per farla breve continueremo a essere noi contribuenti a venire gravati dei nostri deficit bancari, per consentire un maggior consolidamento del sistema. E come abbiamo visto in altre esperienze negative di banche regionali in Veneto, in Liguria, in Puglia, la Toscana non si trova da sola.

Compilare una mappa a colori delle regioni bancarie italiane, come avviene per la pandemia, ci farebbe capire meglio le nostre effettive chances di ripresa.

 

 

 

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3 COMMENTS

  1. Non mi risulta “a parte, la Redazione della Piattaforma Editoriale di Economia & Finanza verde” che qualcuno abbia sentito il bisogno di inserire nelle raccapriccianti cronache di cui sono pieni i giornali – la decadenza capitalistica e crisi di civiltà … realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, che viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore. Confrontando la dissolutezza dell’aristocrazia all’epoca della decadenza…
    Nella storia si definisce decadenza: il periodo in cui si verifica la crisi di una classe dominante che sta esaurendo la sua funzione all’interno di una formazione economico-sociale. Essa è il sintomo tipico «delle epoche di transizione, dilaniate tra ciò che tarda a morire e ciò che appena sta nascendo».
    L’età del decadentismo europeo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, rappresentò la forma culturale con la quale le vecchie classi aristocratiche, spodestate dalla nascente borghesia, celebrarono la loro ultima nostalgica fine di un mondo soppiantato da un altro. La fine del loro mondo era la fine del mondo, la caduta della loro “moralità”, era la fine della morale. E’ un contesto ben definito da Gabriele D’Annunzio quando descrive la condizione dell’aristocrazia ormai decaduta, alla fine dell’Ottocento, in questo modo: «Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommergeva miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d’eletta, cultura, d’eleganza e di arte.
    Grazie, per le Vs. testimonianze trasparenti e fedeli.

  2. Ringrazio Ulderico per questo commento, davvero pieno di passione civile e consapevolezza storica. Mentre lo leggevo mi è capitato di ascoltare Papa Francesco che commentava il Vangelo di Matteo sul padrone che lascia i propri soldi ai servi perchè stava per partire per un lungo viaggio. Questa è la parafrasi che egli ne ha fatto. Straordinaria perchè sarebbe da recapitare a coloro chiamati a controllare e che fanno la parte del servo pigro che non raccoglie nulla e incolpa il padrone per quello che lui non ha fatto.
    Non c’è differenza tra coloro che ricevono di più e coloro che ricevono di meno. Tutti ricevono secondo la loro capacità. Ciò che importa è che il dono sia posto al servizio del Regno e che faccia crescere i beni del Regno che sono l’amore, la fraternità, la condivisione. La chiave principale della parabola non consiste nel produrre talenti, ma indica il modo in cui bisogna vivere la nostra relazione con Dio. I primi due impiegati non chiedono nulla, non cercano il proprio benessere, non guardano i talenti per sé, non calcolano, non misurano. Con la più grande naturalità, quasi senza rendersene conto e senza cercare merito per loro, cominciano a lavorare, affinché il dono ricevuto frutti per Dio e per il Regno. Il terzo impiegato ha paura e, per questo, non fa nulla. Secondo le norme dell’antica legge, lui agisce in modo corretto. Si mantiene nelle esigenze stabilite. Non perde nulla, ma nemmeno guadagna nulla. Per questo perde perfino ciò che aveva. Il Regno è rischio. Chi non vuole correre rischi, perde il Regno!

  3. “Come abbiamo più volte ricordato, per molti intermediari le limitate dimensioni, insieme con la loro prevalente specializzazione, spesso non consentono di effettuare i necessari investimenti in tecnologia, innovare prodotti e processi, sfruttare economie di scala e di diversificazione. Le economie di scala sono specialmente evidenti al di sotto di una certa soglia dimensionale”. Strana affermazione questa, se peraltro viene resa ora da chi è chiamato a compiti istituzionali di vigilanza. Ma fino ad ora chi stava seduto in cabina di regia? Vigilanza non presuppone anche ampia visione delle politiche finanziarie e organizzative di chi gestisce il credito, verificando che siano coerenti con le realtà economiche di riferimento? Boh? Sarebbe un pò come affermare: io c’ero, ma se c’ero dormivo? Troppo complicate le questioni che s’incrociano. Forse siamo stati in tanti i distratti, fino a non capire più nulla di tutta la storia bancaria e i relativi accadimenti degli ultimi tempi. Chi ce lo potrebbe dire asesso? L’oracolo che parla a scoppio ritardato certamente no!

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