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Alluvione in Toscana, siamo alle solite

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Da Soloriformisti
Inutile, tutte le volte che succede un evento disastroso, richiamare la responsabilità di un singolo o di una istituzione. Ai nuovi fenomeni si risponde con un sistema che deve funzionare nel suo complesso e che deve essere fatto di tante cose, strutturali e non strutturali.

A novembre spesso piove molto. E’ il mese più piovoso, in media, in Italia. A novembre si registra una media di 121 mm a fronte di una media mensile nell’anno di 79 mm. Quindi non c’è da stupirsi se, messa nel cassetto l’agenda siccità, si comincia a doversi occupare dell’agenda alluvioni e frane.

Gli allagamenti di questi giorni in tutta la Toscana, e in tante altre parti d’Italia, sono fenomeni normali con i quali abbiamo dovuto sempre lottare. Non a caso il 4 novembre è la data in cui rievochiamo la “grande alluvione di Firenze” del 1966. E lo facciamo ricordando la distruzione terribile che non risparmiò né persone né edifici né opere d’arte e la grande risposta collettiva della comunità locale e dei tanti giovani che da tutto il mondo vennero ad aiutare la città. I famosi “angeli del fango” che furono il prodromo del volontariato civile che oggi rappresenta il perno della nostra protezione civile. Una delle cose che funzionano meglio nel paese e di cui andare fieri a livello internazionale.

Ma in questa normalità c’è qualcosa di eccezionale. Intendiamoci, eventi che ci sono sempre stati ma che oggi si caratterizzano in maniera “anomala” rispetto ai “trend storici” per frequenza, per intensità e per modalità.

Il cambiamento climatico è tra noi. Inutile fare finta di niente. Non si tratta di farlo diventare il “deus ex machina” che tutto spiega e tutto causa. Ma si tratta di prendere sul serio i cambiamenti che via via con sempre maggiore chiarezza si registrano e di mettere, finalmente, nell’agenda del paese il grande tema dell’adattamento come politica globale e integrata, per affrontare con maggiore sicurezza il prossimo futuro. Solo per dare il “senso” di cosa dovrebbe essere un Piano di adattamento si può stimare una necessità di risorse finanziare pubbliche non inferiore ai 500 miliardi di euro. Se traguardato ai prossimi venti anni si tratta di risorse pari a 25 miliardi l’anno: un impegno del tutto alla portata del paese. A patto che il tema adattamento diventi una politica prioritaria e non una fra le tante. Decisamente secondaria una volta passata l’emozione a fronte di eventi naturali disastrosi.

Per quanto riguarda il tema acqua, un capitolo centrale nel Piano nazionale di adattamento, si tratta di intervenire rispetto al problema a doppia faccia della “poca acqua” e della “troppa acqua”. Cercando di recuperare sia i decennali ritardi in tema di investimenti pubblici e di governance generale sia di rafforzare il sistema a fronte dei cambiamenti già in atto e che diventeranno sempre più attuali nel prossimo futuro. Solo per il tema acqua il piano di adattamento richiede investimenti significativi, sia pubblici che privati, per oltre 100 miliardi di euro. Anche qui, una cifra importante, ma che non supera le possibilità tecnico progettuali e finanziarie del paese.

Il Piano di adattamento non è la risposta nervosa e immediata ad eventi disastrosi che si ripetono nel paese. Un comportamento tipico e ricorrente fatto di grandi messaggi, di scarsi mezzi finanziari e di nessuna riforma nella governance e negli strumenti di messa a terra delle opere pubbliche.

Il piano di adattamento deve essere una cosa seria, deve prevedere risorse di lungo periodo adeguate alla prevenzione delle tante criticità che già emergono oggi ed emergeranno sempre di più e deve prevedere una grande riforma in tema di governance e di coinvolgimento delle comunità, attraverso pratiche di informazione, formazione e azione, in tema di autoprotezione individuale e collettiva.

Di fronte alle piogge “anomale”, piogge ad altissima intensità in luoghi ristretti, temporali autorigeneranti, flash flood e criticità varie non sono sufficienti opere singole di difesa ma occorre creare un “sistema resiliente” fatto di opere di prevenzione integrate, di comportamenti adeguati e informati da parte delle comunità, di opere di autodifesa e di gestione olistica dell’acqua e dei fenomeni naturali.

Inutile, tutte le volte che succede un evento disastroso, richiamare la responsabilità di un singolo o di una istituzione (il sindaco, il consorzio di bonifica, il metereologo, il gestore del fiume, chi doveva fare l’opera non fatta, chi doveva farla meglio, chi doveva dragare il fiume, chi lo ha dragato male e così via). Ai nuovi fenomeni si risponde con un sistema che deve funzionare nel suo complesso e che deve essere fatto di tante cose, strutturali e non strutturali, e che deve affrontare in maniera integrata le tre componenti del rischio: la pericolosità (opere infrastrutturali), l’esposizione (delocalizzazioni e limiti alla edificazione in aree critiche) e la vulnerabilità (sistemi di autodifesa, di allertamento, di formazione e informazione delle comunità).

Di fronte alle situazioni drammatiche che hanno colpito la Toscana, una regione che, in un quadro nazionale di scarso impegno in tema di opere per la prevenzione del rischio idrogeologico, ha da sempre fatto la sua parte con investimenti sopra la media nazionale, emerge positivamente una tempestiva e adeguata risposta in termini di emergenza ma il sistema regionale appare poco resiliente rispetto ai nuovi effetti indotti dal cambiamento climatico.

Non basta più la “buona volontà” della Regione e l’impegno innegabile degli altri soggetti istituzionali: dai consorzi di bonifica ai sindaci, dall’Autorità di bacino al Lamma. Occorre puntare più in alto e avviare, in Toscana in un nuovo quadro nazionale di impegno significativo, un Piano di adattamento che vada ad affrontare le grandi e le piccole criticità del sistema in maniera integrata e coordinata.

Dopo decenni di “trastullamento” e di fronte a Governi che purtroppo hanno messo in priorità la ristrutturazione di edifici privati con risorse pubbliche, impegnando dai 100 ai 150 miliardi, occorre riorientare le priorità. La difesa del suolo e la lotta alla siccità sono temi centrali per la vivibilità della comunità nazionale. A meno di non voler continuare, a fonte di ogni ricorrente disgrazia per eventi naturali anomali ma ahinoi sempre più normali, con il solito teatrino fatto di messaggi roboanti e di interventi insufficienti o addirittura inesistenti. Con la malcelata previsione di rivedersi, con la stessa faccia da funerale, alla prossima disgrazia.

Da Soloriformisti, per gentile concessione dell’autore
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1 COMMENT

  1. Siamo alle solite e siamo lontani anche anni luce da quanto suggerito nell’interessante articolo. A Venezia ci sono voluti oltre 30 anni per il Mose e forse oggi è già da ripensare per l’imprevedibilità dei forti venti (causa di onde diseguali di marea) e per i mutamenti climatici che causeranno l’innalzamento delle acque dell’Adriatico. Anche in questo caso non mancavano gli stanziamenti, anzi erano tanti che molti se li misero in tasca per uso personale. Non so quale sia la soluzione ma credo che i vari strati del potere pubblico in senso generale costituiscano un freno insuperabile, a cui bisogna aggiungere gli interessi dei privati. Quando si alza il Mose le navi ovviamente non possono entrare in porto, ad esempio. Tutti vogliono intervenire, tutti vogliono ritagliarsi una fetta di potere per intitolarsi le ricadute economiche per avere visibilità sui territori. Certo così non va assolutamente ma su come rimediare ti prende lo sconforto. Nella mia vita, sono prossimo ai 70, avendo vissuto tra Salerno, Roma e Venezia fatico a ricordare un manufatto, un’opera veramente utile che non sia stata preceduta da anni di studi e di polemiche e pure da ruberie.

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