COPERTINA
Il regista europeo che più profondamente ha indagato lo
spirito dell’America è Wim Wenders. Il suo sguardo più
emblematico sul continente si trova forse in "Alice
nelle città" (1973), di cui vi proponiamo il trailer.
Il giornalista tedesco Philip Winter (Rüdiger Vogler),
inviato negli Stati Uniti da una rivista berlinese,
non riesce a scrivere una sola riga su ciò che vede.
In compenso, scatta decine di Polaroid.
Winter spera che quelle istantanee sostituiscano le
parole che non trova: “di ciò di cui non si può parlare
è meglio tacere”. Ma la redazione non sa che farsene di
quelle scatole piene di scatti compulsivi.
L’ispirazione arriva solo al ritorno in Europa, durante
un viaggio attraverso la Germania, accompagnando Alice,
un’adolescente che ha soccorso per caso e che darà un
senso alle cose.
Forse, per noi europei, l’America rappresenta una lunga
adolescenza. C'è anche moltissima America in questa
edizione del Festival di Cannes, e può essere che il
film surreale di Ari Aster riceva un premio maggiore.
Torniamo a Wenders, oggi l'autore tedesco potrebbe
imbattersi nel libro, "America, América", capace di
ispirargli un prossimo film con uno sguardo davvero
nuovo sulla storia dell’America.
Oggi vorrei introdurre proprio quel libro, recentemente pubblicato ma non ancora disponibile in italiano. Temo che possa seguire la sorte di altre opere di Greg Grandin, professore di storia a Yale, tuttora inedite nel nostro paese.
In opere come The End of the Myth (premiato con il Pulitzer) e Fordlandia, Grandin ha studiato i processi profondi, spesso carsici, della società americana vista come un unico grande insieme. Viene in mente Braudel.
L’assenza delle opere di Grandin in italiano rivela lo scarso interesse del complesso editoriale e culturale del nostro Paese alla storia americana, decisiva per comprendere il mondo contemporaneo a tutti i livelli.
Sorprende che, in un’epoca di interdipendenza globale, il dibattito italiano difetti di strumenti storiografici per interpretare le radici dell’influenza americana su crisi, ideologie e immaginari attuali.
Statunitense o americano?
Provo impaccio a usare “statunitense” per indicare ciò che riguarda gli Stati Uniti d’America. È come dire “unionensi” delle cose dell’Unione europea: diciamo “europeo”, anche se l’Unione non include l’intero continente.
Come si fa a dire il “cinema statunitense” o la “letteratura statunitense” o che Fitzgerald è uno scrittore “statunitense”? Eppure sarebbe corretto, perché la lingua deve essere precisa e ha anche un senso che lo sia.
In inglese, però, “statunitense” non esiste. Si dice “American”, mentre nei contesti giuridici si usa “U.S. citizen”, per evitare ambiguità. La lingua legale, infatti, privilegia la precisione rispetto alla comunicazione un po’ distratta.
Testi e sottotesti
Talvolta, ma non sempre, quando leggo o ascolto “statunitense”, avverto un sottotesto. Come se, grattando la superficie spuntasse una parola legata a un giudizio di valore. Ma questa sensazione è forse un mio bias.
Ma esiste anche quello contrario: “americano”, usato senza distinzioni, può sottendere che solo ciò che proviene dagli Stati Uniti abbia valore e che il resto sia irrilevante. Un’idea che olezza di dominio simbolico.
Scrive Grandin: “Quando Jefferson e Adams usavano la parola America, si riferivano agli Stati Uniti. Quando Bolívar, Miranda usavano la parola América, intendevano tutte le Americhe.”
Forse la soluzione sta in un accento: “Américano” per il continente, “Americano” per gli USA. Oggi l’intelligenza artificiale riconosce gli accenti: potremmo usarli per distinguere, senza sacrificare il gusto lessicale.
America e América: un libro attualissimo
Il recente e notevole libro di Greg Grandin, dal titolo cinematografico di America, América ci sprona a riflettere sulle parole che usiamo, perché le parole non sono mai solo parole.
Come ogni serio libro di storia, America, América: A New History of the New World non è una lettura agile come La luna e i falò. È un libro di 753 pagine, oltre 100 sono solo di note e indici di nomi.
L’opera di Grandin attraversa cinque secoli di storia américana: dalla Conquista spagnola alle indipendenze, dalla Dottrina Monroe ai colpi di stato, fino all’umanesimo moderno e al movimento MAGA.
Come nota il prof. Stefano Luconi, docente di storia americana a Padova, il libro di Grandin capita in un frangente che lo rende attualissimo. L’appena eletto Leone XIV è un papa sì “americano”, ma anche “américano”.
Questa doppia identità lo rende, secondo Luconi, una “personificazione del panamericanismo”, proprio mentre la nuova amministrazione USA adotta posizioni antagoniste verso il resto dell’América.
Ho chiesto al prof. Luconi di commentare il lavoro di Grandin e ho ricevuto una lunga recensione della quale vi offro di seguito una sintesi, in attesa che qualche grande o piccolo editore vada da Penguin per la traduzione italiana.
Buona lettura.
Una storia interamericana
sintesi della recensione di Stefano Luconi
Un lungo pregresso
Il pregiudizio americano verso l’America Latina affonda le radici nella fine del Settecento, alimentato da una società anglosassone e protestante che guardava con sospetto a popolazioni cattoliche e in gran parte meticce.
Thomas Jefferson contrappose la repubblica che guidava al dispotismo coloniale latinoamericano, criticando l’influenza cattolica. Riteneva impossibile che un popolo “dominato da preti” potesse dotarsi di istituzione democratiche.
Nel 1941, sull’autorevole “Foreign Affairs”, l’economista Eugene Staley sostenne che gli Stati Uniti non appartenessero a una “comunità américana”, bensì a una “transatlantica”, strutturata lungo l’asse Nord America-Europa.
L’Organizzazione degli Stati Americani del 1948 rappresentò il panamericanismo dominato dagli USA: Truman allargò all’América l’anticomunismo dando continuità alla visione emisferica di Roosevelt contro l’Asse.
Il contributo dell’América all’America
In America, América, Grandin smonta i pregiudizi USA sull’inferiorità latina, mostrando il contributo attivo della regione, non subalterna, ma centrale in una storia interconnessa e ricca di apporti reciproci significativi.
Grandin elenca gli apporti latinoamericani agli USA: la riduzione delle tariffe nel 1933 salvò il New Deal. La cooperazione bellica fu vitale contro l’Asse. La regione influenzò attivamente le sorti del conflitto mondiale.
Roosevelt definì la base aerea brasiliana di Natal, capitale dello stato del Rio Grande do Norte in Brasile, il “trampolino per la vittoria” nella seconda guerra mondiale.
Sul piano intellettuale, Grandin mette in luce il panamericanismo di giuristi come Bello, Álvarez e Calvo. Le loro teorie sull’uguaglianza degli Stati passarono a Wilson e Roosevelt, culminando nello statuto delle Nazioni Unite.
Grandin mostra come l’abolizionismo USA si ispirò a Bolívar. Riconosce la Costituzione messicana del 1917 come pioniera dei diritti socioeconomici e della subordinazione della proprietà privata al bene comune.
La sintesi di Leone XIV
Nell’attualità, Grandin individua prospettive incoraggianti nell’azione dei governi socialdemocratici dell’America Latina, che rappresentano quasi mezzo miliardo di persone.
Secondo lo storico, questa via rappresenta il miglior antidoto contro le derive autoritarie: un modello politico ispiratore anche per gli USA, come dimostra la crescente popolarità della Presidente messicana, Claudia Sheinbaum.
In contrasto con il mito “americano” della frontiera e della conquista, Grandin valorizza il ruolo mitigatore degli ideali umanistici dell’América, di cui Leone XIV si fa interprete emblematico e sintesi operante.
Qualora desideriate leggere la recensione completa del Professor Stefano Luconi, potete trovarla qui.