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Investire i risparmi tra banche e fondi: colori d’epoca e dinamiche senza tempo

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Negli ultimi tempi, se c’è una cosa che non smette mai di salire – oltre al prezzo del caffè al bar – è il patrimonio del risparmio gestito in Italia da banche e Società di gestione del risparmio (Sgr).

Secondo Assogestioni, nel 2025 è stata superata la soglia dei 2.500 miliardi di euro.

Un record che significa più commissioni e utili per i gruppi bancari, compensi per le reti di consulenza, dividendi per gli azionisti e un sorriso anche per le Autorità di vigilanza, felici di certificare un sistema “in buona salute”.

E i clienti? Circa 11,6 milioni di italiani continuano a sottoscrivere fondi comuni di investimento – tradizionali e percepiti come “sicuri” – in filiale o, sempre più spesso, online attraverso le stesse piattaforme bancarie.

Eppure le alternative digitali e low-cost esistono, sono semplici e trasparenti… ma restano scelte di minoranza.

Il cartellino del prezzo: quanto costa davvero

Una ricerca veloce sul sito di un grande gruppo bancario italiano: fondo comune tradizionale con costo complessivo annuo spesso oltre il 2% e, in alcuni casi, vicino al 3%.

Dentro c’è tutto: eventuali commissioni una tantum (ingresso/uscita ripartite nel tempo), gestione, performance e soprattutto le retrocessioni, cioè la quota delle commissioni che remunera l’intermediario che ha collocato il fondo.
Un ETF (sostanzialmente fondi comuni però quotati in Borsa) con la stessa esposizione acquistato tramite una piattaforma di trading può costare 0,05–0,30% l’anno  (il cosiddetto “TER”), a cui si aggiungono la commissione di acquisto/vendita applicata dal broker e lo spread denaro–lettera (differenza tra prezzo di acquisto e di vendita).

Per chi investe con un orizzonte di lungo periodo e non fa trading frequente, l’impatto di questi costi di negoziazione è in genere marginale: con un TER dello 0,30%, commissioni e spread tendono a spostare poco il rendimento complessivo.

L’obiezione classica è: “Ma con il fondo hai un consulente che ti segue”. Vero, ma è un po’ come se il medico prescrivesse sempre il farmaco “di marca” ignorando il più economico medicinale generico. A parità di obiettivo/esposizione, il differenziale di costo si accumula nel tempo e incide in modo significativo sui rendimenti netti.

Perché le banche vincono ancora, anche nell’era digitale

La “digital disruption” ha avuto un effetto concreto per le banche: meno filiali e meno personale, quindi minori costi operativi. Ma una delle loro principali fonti di ricavo, le commissioni sui prodotti di risparmio gestito, è rimasta pressoché intatta. Così come il modello di business adottato.

Cultura finanziaria
È ormai un luogo comune ricordare che l’Italia è in coda alle classifiche per educazione finanziaria. La verità è che anche chi conosce ETF e gestione passiva spesso preferisce delegare le scelte a un intermediario.

Andamento demografico
Con un’età media elevata, il rapporto diretto col consulente di fiducia vince ancora sull’app di trading. Aprire un conto titoli online e gestirsi gli investimenti richiede impegno e competenze che spesso con l’età tendono a ridursi.

Fiducia e marketing
“Sono cliente da una vita” equivale spesso a “mi fido a occhi chiusi”. E lo storytelling fa il resto: “Ci prendiamo cura del tuo patrimonio” suona meglio di “ti costa il 3% l’anno”.

Retrocessioni: l’incentivo a vendere prodotti più cari

In Italia la distribuzione retail dei prodotti finanziari si basa ancora, in larga misura, sulle retrocessioni, tuttora consentite (fatta eccezione per consulenza indipendente e gestione di portafogli). Nonostante il dibattito in sede UE verso maggiore trasparenza, il modello resta prevalente.

Poiché la retrocessione è una quota delle commissioni, all’aumentare del costo del prodotto cresce anche l’incentivo commerciale a collocarlo.
Anche acquistando un fondo comune tramite l’home banking della propria banca, nella maggior parte dei casi si applica la stessa struttura di commissioni. Cambia il canale, non il meccanismo dei costi e degli incentivi.

Concorrenza limitata: il “recinto” del fisco

Chi vuole gestire in autonomia i propri risparmi trova costi di negoziazione e custodia spesso più alti sulle piattaforme italiane rispetto ad alcuni broker esteri. Invero, gli intermediari italiani offrono il regime fiscale amministrato: la banca calcola e versa le imposte al posto del cliente.
Negli ultimi tempi alcuni operatori esteri con presenza in Italia hanno iniziato ad attivare il regime amministrato, riducendo l’attrito fiscale per i piccoli investitori che cercano commissioni più contenute.

Con intermediari esteri “puri” resta invece il regime dichiarativo: quadri fiscali da compilare, imposte da versare direttamente e, non di rado, spese per il commercialista.

Un mercato “prigioniero”

Insomma è un mercato in parte “captive”: concorrenza internazionale limitata, operatori domestici che mantengono margini alti e poca pressione a ridurre le commissioni. Il fortino resiste bene.

Per aprire maggiormente alla concorrenza e dare ai risparmiatori più libertà di scelta servono ancora, oltre a uno sforzo culturale, soluzioni normative più coraggiose e aggiustamenti mirati in ambito fiscale.
Fino ad allora, il “rubinetto” continuerà a gocciolare nelle casse delle banche. Goccia dopo goccia. Miliardo dopo miliardo.

Intanto è da leggere anche questo articolo tratto da The New York Times di questi giorni (in italiano). Mercati_momenti_migliori

1 COMMENT

  1. Alla fine succede che i piu’ continuano ad affidarsi ai soliti operatori, come si fa coi commercialisti o i CAF per le variegate dichiarazioni fiscali obbligatorie.
    Quindi, per non dover seguire la volatilita’ andamentale dei corsi e le mutazioni delle normative fiscali, ci si rassegna in maggioranza a pagare oneri superiori, non sempre giustificati, applicati dalle solite istituzioni che, sostanzialmente, si associano attuando univoci “cartelli”.

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