Home Sostenibilità Ancora sul Corpo Forestale dello Stato e sulle sue ‘responsabilità’

Ancora sul Corpo Forestale dello Stato e sulle sue ‘responsabilità’

2020
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Il Professor Adriano Gradi ci ha fatto pervenire queste precisazioni in ordine alle osservazioni formulate da un lettore al suo articolo di qualche giorno fa C’era una volta il Corpo Forestale dello Stato. Le sue testimonianze costituiscono un affascinante racconto di storia istituzionale e di storia naturale. Buona lettura.

Egregio Architetto,

La ringrazio per le osservazioni fatte al mio articolo “C’era una volta il Corpo forestale dello Stato”. Le osservazioni, positive o negative che siano, arricchiscono le conoscenze e quindi sono molto utili. Socrate diceva che era certo di una sola cosa e cioè di non sapere mai abbastanza!

Ciò premesso, ritengo cortesemente di fare alcune considerazioni a maggior chiarimento del mio pensiero.

Sulla militarizzazione del C.F.S.

Il fascismo militarizzò il Real Corpo delle Foreste cambiando il nome in Milizia Nazionale Forestale. Dopo la caduta del fascismo avvenne la smilitarizzazione. Agli ufficiali fu tolta la divisa lasciata però a sottufficiali e guardie dovendo essere riconoscibili durante il servizio. Agli appartenenti al Corpo Forestale dello Stato, nuova denominazione dell’Organo tecnico dello Stato, rimase la funzione di polizia giudiziaria. Nel 1956 partecipai al bando di concorso per Ispettore forestale aggiunto in prova nel ruolo tecnico superiore del C.F.S. e pertanto, come si deduce anche dal bando, ero considerato civile a tutti gli effetti, pur avendo le suddette funzioni. E ciò fin tanto che sono uscito dal C.F.S come Dirigente superiore per passare all’Università attraverso concorso.

Vulgata degli Eucalipti e del Pino nero.

Ambientalisti, Architetti, Ingegneri, Paesaggisti ecc. hanno sempre criticato il C.F.S. per la diffusione “indiscriminata” delle due specie arboree. Vediamo finalmente di spiegare come stanno le cose e quali siano le ‘colpe’ del C.F.S.

– Eucalipti

il genere Eucalyptus comprende circa 600 specie e varietà spontanee in Australia e nell’isola Nuova Guinea, Tasmania in formazioni di bosco-savana, savana ecc. Esse ricadono nella fascia fitoclimatica del Lauretum, sottozona calda con piogge di 600-700 mm annui. Queste le condizioni ecologiche dell’area naturale. I frati Trappisti dell’Abbazia delle Tre Fontane di Roma nel 1870 realizzarono il primo bosco di eucalipti.

In tale contesto si diffuse la credenza popolare che gli eucalipti si opponessero alla diffusissima malaria per cui nelle zone dell’Italia centrale e meridionale nonché delle isole, furono effettuate vaste piantagioni di Eucalipti da privati e da Comuni (Eucalyptus globulus – E. camaldulensis).

L’operazione fu un fallimento e gli impianti oltretutto fuori dalla propria fascia climatica furono abbandonati a se’ stessi. Le zanzare c’erano come prima e tecnologicamente il legname di eucalipto, a fibra corta, era difficile a lavorarsi.

Il Real Corpo delle Foreste, creato nel 1877, era ovviamente estraneo a queste vicende. Inoltre in Sardegna, miniere di Gennamari Ingurtosu, la Società che le gestiva, avendo bisogno di legname per puntellame ed armamenti vari, realizzò boschi di eucalipti con un certo successo anche per le indicazioni tecniche fornite dal Prof Aldo Pavari direttore della Stazione sperimentale di Selvicoltura di Firenze che aveva acquisito grande esperienza d’ordine genetico sugli eucalipti e quindi sulla selezione della provenienze. Non esistevano, del resto, possibilità tecniche per creare boschi di altre specie a relativo rapido accrescimento.

In Italia, gli impianti di Eucalipti hanno avuto spesso carattere sperimentale e sono stati generalmente progettati e seguiti dalla Stazione Sperimentale di Selvicoltura di Firenze oltre che dal Direttore Prof. Pavari Ordinario di Botanica forestale e anche dal Prof. Alessandro De Philippis Ordinario di Ecologia forestale e di Selvicoltura speciale, ambedue Professori Emeriti. Le piantagioni hanno avuto in ogni caso estensione limitata.

Nelle zone di bonifica, generalmente in pianura, gli assegnatari avevano problemi nella effettuazione delle colture agrarie in particolare a causa di forti venti radenti.

Ciò indusse la Stazione di Selvicoltura a realizzare fasce frangivento sperimentando non solo Eucalipti a rapido sviluppo, ma anche il Pinus radiata (Insignis) proveniente dall’area naturale della baia di Monterey (California), cui si aggiunsero alcune specie autoctone. I risultati furono molto buoni: anche sotto l’aspetto naturalistico per le specie esotiche impiegate al tempo non ci furono critiche. Gli agricoltori assegnatari delle terre dovevano pur produrre e guadagnare (Agro Pontino nel Lazio e Arborea in Sardegna).

Concludendo, l’impiego in Italia degli Eucalipti è avvenuto soprattutto a scopo sperimentale, spesso diretto dalla Stazione sperimentale di Selvicoltura di Firenze. Il C.F.S. può avere solo fatto assistenza a queste sperimentazioni. Allo studio degli eucalipti per la produzione di cellulosa si è interessato anche l’Ente Nazionale Cellulosa e Carta. Un altro chiarimento: gli Eucalipti sperimentati avevano ben altri scopi e non quello di assorbimento dell’acqua, non essendo specie adatte a zone acquitrinose.

Nelle aree un tempo malsane si possono ancora trovare boschi o boschetti residui di quegli impianti, quali “panacea” contro la malaria ovvero della ricerca sperimentale.

Pini neri

Ora volgiamo lo sguardo al Pino nero. Occorre fare luce anche su questa generale vulgata, cioè che il CFS sia responsabile della loro sconsiderata diffusione. Questa credenza , tra l’altro, mette in evidenza la non conoscenza delle esigenze ecofisiologiche delle specie forestali e le difficoltà dei rimboschimenti e delle relative cure colturali.

Tanto per cominciare, il Pinus nigra, specie autoctona con le sue varietà Austriaca, Villetta Barrea, Laricio, appartiene alla fascia fitoclimatica del faggio (Fagetum): più avanti ne riparleremo poiché questa caratteristica è da molti dimenticata.
I forestali, che nei vari periodi che si sono accinti ai rimboschimenti, si sono trovati di fronte a terreni nudi, cespugliati o con forti erosioni, rocce affioranti, scoscendimenti, frane, smottamenti ecc.

Insomma aree inospitali alla vegetazione degradate da secoli di antropizzazioni dagli Etruschi ai Romani, alle popolazioni autoctone, comprese quelle delle invasioni barbariche e successivi insediamenti, per cui si è dovuto far ricorso all’impiego di specie rustiche, frugali, di facile attecchimento, resistenti alla siccità ed alle avversità meteoriche indipendentemente dalla fascia fitoclimatica di appartenenza.

Pertanto, si tratta di specie pioniere, preparatorie, provvisorie (come il Pino nero) da sostituire nel tempo con quelle definitive più esigenti su un terreno ed un ambiente forestale preparato dalla presenza delle specie precedenti.

Quindi, previ leggeri mirati diradamenti, si sarebbero dovute inserire, nel caso del Pino nero, nella pineta ad esempio latifoglie per poi effettuare il taglio di sgombro dei pini quando il nuovo ecosistema bosco si fosse affermato.

Come si è già accennato il Pino nero è stato usato spesso fuori dal suo ottimo fitoclimatico (che è il piano del Faggio) per le sue doti di frugalità ed attecchimento: in tal caso però non da’ luogo a rinnovazione naturale (perpetuazione del bosco). Quindi occorre seguire la tecnica sopra descritta altrimenti, dopo che i Pini hanno terminato il loro ciclo, si ritorna ai terreni cespugliati come erano prima del rimboschimento.

La colpa del Corpo Forestale dello Stato è dunque non tanto quella di aver rimboschito con Pini molte superfici, perché non si poteva fare diversamente, ma quella di non aver sostituito con latifoglie varie i Pini usati come specie pioniere e provvisorie. Se lo avesse fatto nel tempo (interventi colturali) avremmo attualmente bellissimi boschi soprattutto di latifoglie ovvero ecosistemi stabili invece del ritorno al generale abbandono e malgoverno. Evidentemente ci sono stati gravi carenze direzionali.

Ma il fatto ancor più grave è che sia la Regione a cui sono stati trasferite le competenze sui boschi della soppressa Azienda di Stato Foreste Demaniali sia le Comunità montane e le Unioni dei Comuni non hanno nemmeno loro iniziato la sostituzione di specie provvisorie.

Le autorità preposte autorizzano addirittura interventi di diradamento del Pino nero fuori dall’ottimo climatico come se lo stesso desse luogo a rinnovazione naturale per cui, una volta spariti i Pini se non è presente qualche altra specie naturalmente nata od introdotta, il bosco non esiste più ovvero non si perpetua. Nel caso di boschi demaniali e ce ne sono molti, siamo in presenza di danneggiamenti di beni pubblici.

Infine per alcuni decenni le utilizzazioni forestali, per notevole riduzione del valore degli assortimenti legnosi ricavabili dei boschi dovuta alla globalizzazione, si sono ridotte del 50%. Poi, essendosi verificato un aumento della domanda di cippato e di pellet, sono ripresi tagli spesso in contrasto con le normative forestali regionali e nazionali.

AD PERPETUAM REI MEMORIAM

Nel mio articolo “C’era una volta il Corpo Forestale dello Stato” scrivo che i forestali hanno commesso errori ma, complessivamente, la loro opera è da ritenersi positiva soprattutto nell’applicazione delle Leggi a favore dei territori montani che, oltre ad aspetti di protezione idrogeologica, riflettevano risvolti sociali in momenti estremamente difficili anche dal punto di vista sociale.

In base ad un’indagine della C.C.I.A. di Arezzo del 1984, risulta che nella provincia il C.F.S. ha effettuato 8000 ettari di rimboschimenti di terreni nudi o degradati e realizzato 5000 opere idrauliche (briglie) per la stabilizzazione di alvei torrentizi, compreso il torrente Camaldoli che metteva a rischio la stabilità dell’omonimo celebre Convento.

Numerose, poi, le strade forestali di accesso ai rimboschimenti costruite con lungimiranza e criteri moderni per cui facilmente sono divenute poi strade normali (ad esempio ved. Strada panoramica del Pratomagno).

Il C.F.S. operava nei 36 i bacini montani classificati ma, in particolare, nei Bacini del Foglia, del Marecchia, dell’Alto Tevere, del Casentino, del Pratomagno, di Arezzo (Alpe di Poti, Scopetone, Cerfone, Lignano), di Castiglion Fiorentino, di Cortona con numerosi operai che, nei momenti di punta, sono arrivati anche a 650 unità.
Tutto questo capitale realizzato senza mezzi meccanici (ho lavorato anch’io come operaio nel cantiere Poggio Traversa), salvo eccezioni, è in stato di abbandono o in mano a gestioni impreparate con il rischio di regressione, se non di annullamento del bosco.

Ciò detto meraviglia il fatto che nessuno si occupi concretamente di questi problemi e delle opere che costarono sacrifici di operai e molti milioni di lire di spesa pubblica.

A giustificazione di mancati interventi in montagna, compreso il sostegno di molte economie locali, a parte il turismo, si diffondono notizie dalle quali si apprende che la superficie italiana aumenta annualmente di circa 70.000 ettari, per l’abbandono di aree agricole considerate impropriamente boschi molte delle quali, anche dopo decenni, non diventeranno mai boschi nel vero senso della parola.

Si dimenticano altresì disinvoltamente le decine e decine di migliaia di ettari percorsi dal fuoco e le ingenti devastazioni meteoriche e si giunge ad affermare che dopo un incendio il bosco si costituisce da se’ stessi! Quindi nessuna ricostituzione di boschi come un tempo.

Vi sono sull’Appennino, ma in parte anche sulle Alpi, 5- 6 milioni di ettari di terreni a forte dissesto idrogeologico con gravi rischi per le zone vallive sottostanti.
In tale stato di cose, se è vero che l’Architettura del paesaggio è legata anche alla Selvicoltura ed a vari interventi in montagna (geometrizzazioni del paesaggio, forme di governo e trattamento dei boschi, aspetti genetici, rapporto uomo natura, ecc.), sembrerebbe ormai tempo che l’Ordine degli Architetti prenda conoscenza di situazioni reali, estraendo la radice quadrata dalle informazioni che quotidianamente sono fornite da organi politici spesso solo come “mode ecologiste” e non come fondanti “problemi ecologici.”

Ritengo le osservazioni al mio articolo molto importanti, poiché evidentemente dimostrano che c’è ancora qualcuno che si occupa di certi aspetti.

Negli anni 80 tenni un corso di Tecnologia del legno, su incarico del Preside della Facoltà di Agraria, alla Facoltà di Architettura di Padova ed ebbi a constatare il grande interesse che gli architetti di diverse età avevano per la materia legno e derivati, e soprattutto per la collegata Selvicoltura.

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