Lessico familiare del giorno in cui morì Senna

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    Ho ricevuto dalla mia amica Sura Bizzarri di Maresca (Pistoia) questo racconto breve, ma non per questo meno capace di suscitare emozioni. Fatti collettivi e momenti familiari si incrociano, fino a fissare la memoria di un avvenimento tragico nel nome e nella vita di una nascitura. La fine di un personaggio pubblico amato nel circo della Formula 1 a Imola nel 1994, un crack imprevedibile che spezza una continuità, si ricompone poco tempo dopo, come se il mondo fosse un puzzle, i cui pezzi si separano e si riuniscono incessantemente, senza soluzione di continuità. Un perenne non senso o un sempiterno senso del Tutto?

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    Lo conoscevo solo come un nome, un brusio in televisione, un suono soffiato nelle orecchie, ma mai giunto veramente al cervello, voci che ne parlavano in strada, nei bar. I discorsi uggiosi che ai ragazzi proprio non interessano, parole ripetute che diventano vuote, incolori, inodori.

    Ma quel giorno ero a Roma, avevo accompagnato mio nonno a trovare suo fratello, che lì si era trasferito nel primo dopoguerra. Stavo a tavola con persone di cui tanto avevo sentito parlare, ma mai avevo conosciuto. E non era un pranzo di circostanza, di quelli in cui si scartano i regali di Natale e si sprecano l’uno verso l’altro complimenti improvvidi.

    Figuriamoci! Due vecchi fratelli che non si vedevano da almeno trenta anni senza mai telefonarsi, sentirsi… di convenevoli ne avevano davvero pochi.
    Era piuttosto un pranzo di luce, di abitudini diverse. Un pranzo pacato, sobrio, ma non elegante. Poche parole per raccontare cinquant’anni trascorsi.
    Oltre ai nonni, ormai vedovi, c’erano i figli e i nipoti. Ragazzi come me, nati e cresciuti a Roma, estranei coi quali mi rendevo conto di condividere qualche tratto somatico.

    Nonno Cesare e lo zio Sergio, i due attori, parlavano piano, con gli occhietti stretti fra le rughe di sorrisi ormai addomesticati dal tempo. Noi, tutti gli altri, i commensali comparse, coloravamo e perfezionavamo i loro dialoghi.
    Per me fu una suggestione, tanti momenti della vita lo sono, o lo diventano, tanto quella giornata si è cristallizzata perfettamente nella mia memoria.

    La morte è un algoritmo misterioso che pesca qua e là fra le teste della gente che lavora, che mangia, che ride, telefona, fa l’amore. Talvolta la morte è pietosa, talvolta è bizzarra, non porta rispetto per i giovani e, al contrario, si accanisce su agonie interminabili e senza senso.
    Ma la morte non ci riguardava in quel momento, sebbene i due vecchi, ormai avanti nel percorso della vita, di lì a poco se ne sarebbero andati, entrambi.

    Il loro parlare stanco, incentivato e incalzato dal nostro compiacimento, nascondeva ancora curiosità per la vita, interesse per l’attualità, piccoli progetti per il futuro.
    Mangiammo lentamente, come nelle domeniche oziose di tanti anni fa, con ritmi che oggi, per molti, risultano sconosciuti.

    Dopotutto era il primo Maggio, non c’era da lavorare, i negozi erano chiusi. E nel rito di quel pranzo abbondante, ma semplice si racchiudeva un sapore speciale che andava oltre quello delle pietanze; assomigliava a quello del pane fresco, del bucato alla finestra, del sapore delle fragole.

    Tanti i ricordi risvegliati e spolverati dai due vecchi, talvolta anche dolorosi, ma affrontati senza lacrime, senza patine ipocrite, con la ruvidità di due vecchi che non hanno aspettative, che si limitano a vivere quello che rimane.

    Dopo pranzo ci trasferimmo in salotto, le finestre socchiuse, i rumori già estivi del palazzo animato dalle famiglie. Ragazzini in cortile a tirare calci al pallone.
    Nella vetrina la cristalleria, i libri perfettamente allineati nel vecchio scaffale, ogni cosa al suo posto, in una casa lucida e ben tenuta.

    Lo zio Sergio accese la televisione, c’era il Gran Premio. Mai ne avevo visto uno, se non di sfuggita. Il ruggito delle macchine che poi diventava monotono mi stava sui nervi. Ma quella domenica non era mia, era dedicata ai due vecchi.
    Così i discorsi affievoliti del dopo pranzo si perdevano in quell’anello di ronzii ripetuti, seguiti distrattamente. Fuori c’era il montare dell’estate e le rondini volavano alte, anch’esse in giri concentrici sui tetti, come al Gran Premio.

    La notizia in prima pagina su Le Figaro

    Poi successe tutto. Un incidente. I nonni sobbalzarono sulle poltrone con la gravità di quando accadono cose grosse. Per me, estranea a quel mondo, sembrava una cosa di routine, una delle macchine era uscita dalla pista. Ma la voce del cronista era allarmata e i nonni continuavano a parlarne, guardavano e riguardavano la stessa scena, trasmessa a ripetizione, quella dell’incidente. Sono i gesti, i piccoli momenti che restano nella mente come suggestione. Io ricordo il gesto di allungare le mani, in quel salottino illuminato dal sole, per prendere la tazzina del caffè.

    Quel gesto rimane il momento in cui Senna morì. Ogni volta che ripenso a Senna io rivedo quel gesto, quella fotografia di noi, in quel salottino, con due vecchi e intorno una famiglia che non avevo mai conosciuto, mentre si accinge al rito del caffè.

    In quel momento non lo sapevo, ma dentro me si stava concependo la vita.
    Oggi Senna è una ragazza vitale, agile, che sa muoversi nel mondo, dal quale io mi sto allontanando sempre più per rifugiarmi in me stessa, in un mondo interiore che mi contiene e soddisfa i miei semplici bisogni.

    Senna, mia figlia, è il collegamento con la realtà che ho imparato a vivere in modo distaccato.

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