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Antonio Paolucci (1939 – 2024) e l’arte che diventa storia

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Nel suo ultimo libro Arte Italiana Mille anni di storia riedito da Giunti nel 2022 (prima edizione, 2006) scopriamo le doti di affabulatore del grande critico. Un viaggio di pura e vera immaginazione tra le epoche dell’arte italiana che restituisce al lettore la storia di un millennio che va dal Duecento ai nostri giorni. Per me, modesto cultore di arte e storia, ben presto evaporate dagli anni del liceo, il ritrovamento in uno scrigno prezioso di un unico filo narrativo. Tratta l’arte come una vicenda storica, un caleidoscopio di eventi politici e sociali dietro un quadro o una scultura. Un viaggio storico che rende bene la frammentazione per secoli del paese dopo la scomparsa dell’impero romano. L’arte raccontata come instrumentum regni.

Si inizia il viaggio con lo stile romanico che invade e pervade l’Europa tra l’XI e il XII secolo; esso è appannaggio delle nuove classi sociali dei borghesi che si sostituiscono lentamente all’aristocrazia feudale. Diversità e pluralità segnano le aree regionali europee e italiane. E’ un destino plurale della nostra storia artistica simile a quello che riguarderà la storia politica e militare della penisola fino al Settecento. Paolucci sembra volerci dire che è l’incipit di tutto, delle nostre grandezze e delle nostre sciagure. Pluralità e non unitarietà.

Tutto trascolora nel Trecento, nel secolo che tira dentro anche la pittura con Giotto. “Il suo capolavoro lo realizzò negli anni 1303-1305 per il ricchissimo banchiere Enrico Scrovegni. E’ la cappella detta dell’Arena a Padova, il vertice più alto dell’arte italiana del Trecento, l’equivalente in pittura della Divina Commedia”. Il Trecento è stato il grande secolo degli italiani per la disseminazione dell’arte a servizio dei borghesi, del proletariato urbano, del potere pubblico (la Sala del Consiglio del Lorenzetti a Siena). A Napoli, come a Orvieto, Perugia, Venezia e Firenze tutto ciò è reso possibile dalla circolazione del denaro liquido. Un tema ricorrente e affascinante nella visione di Paolucci è proprio la trasformazione del denaro in affreschi, fontane, piazze e sculture. Oggi capita l’esatto contrario.

Al momento dell’apogeo del Rinascimento a Firenze, qualcuno però inizia a tessere una visione di insieme, fatta anche di stereotipi probabilmente, che ancora ci avvolge. E’ Niccolò Machiavelli che con un non comune senso della storia avverte che l’estetismo degli italiani fa tutt’uno con il loro immoralismo e il loro individualismo. Il celebrato paradiso delle arti nelle corti europee ha un legame molto stretto con la fiacchezza delle istituzioni e la inaffidabilità dei singoli. O tempora o mores! Firenze si affidava nel frattempo alla triade sublime di Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Da Firenze alla Serenissima il passo è breve, alla potenza militare e politica fa da contraltare la pittura di Tiziano, Paolo Veronese, Tintoretto, Bellini, l’architettura di Sansovino e di Palladio che la rivitalizzeranno rendendola più monumentale e meno decorativa con il primo, di origine fiorentina, che porterà in laguna i suoi connazionali, Vasari e Ammannati.

A Caravaggio, Paolucci dedica un paio di pagine a dimostrare la sua fascinazione per la pittura del vero, buona a fare i fiori come le figure. Anticipa la stagione del Barocco romano che si fa universale sotto la spinta della Chiesa cattolica. Al centro domina la figura di Lorenzo Bernini e del suo antagonista Borromini. La città eterna doveva stupire con le sue fontane, le Chiese monumentali collegate tra di loro come un unico palcoscenico per accogliere i pellegrini.

Mi fermo qui per lasciare ai lettori il gusto della scoperta delle epoche successive che arrivano fino ai nostri giorni, anche se meno formidabili tranne per il Settecento, il secolo della ragione anche nell’arte. La critica settecentesca riguarda l’estetica del Barocco, sostituito dal gusto neoclassico che ha il suo mentore in Antonio Canova. Tempi nuovi che investono in modo fecondo le tante capitali d’Italia: Roma con la Fontana di Trevi, Napoli con la Reggia di Caserta, Venezia con Tiepolo, Longhena e Canaletto. Ultimi bagliori di una vicenda irripetibile. “Il viaggio in Italia resta irrinunciabile per chiunque intenda praticare in patria il mestiere di artista”.

Chi siamo

A cosa serve la lettura di questa opera, per me, straordinaria ? E’ un viaggio nei luoghi e soprattutto nel tempo del nostro paese. Quasi ovunque troviamo testimonianze di arte e cultura. Eppure qualcosa rimane inespresso, incompiuto. Alla laudatio non segue il civis sum. Le nostre qualità civili – a differenza delle tante espressioni artistiche – non sono eccelse e la macchina del paese non va, lo sappiamo. Ed allora Chi realmente siamo ? Un museo ammirato in tutto il mondo che deve preoccuparsi, come a Venezia, di mettere in fila chi arriva perché ormai il turismo non è più sostenibile ? Con i centri storici trasformati in maleodoranti suk di negozi di gondole e di fritti da mangiare per strada ? La bellezza del nostro paese l’abbiamo pagata nel corso dei secoli per essere l’Italia il paese più invaso del mondo e i tanti plurali di cui ci affascina Paolucci hanno costituito un freno alla formazione di una solida coscienza civile. L’Italia odierna è emersa così dal suo glorioso passato di arte e cultura.

Non ho dunque risposte certe. Mi piace ricordare alla fine di questo breve articolo il giudizio di uno storico inglese grande conoscitore del nostro paese Denis Mack Smith (1920-2017). Ci ha raccontato in Storia d’Italia (Laterza, 1997), accanto agli innumerevoli progressi compiuti con lo sviluppo economico, anche due vulnus che ci hanno accompagnato dal dopoguerra in poi:una stravagante politica di spesa pubblica e la debolezza dei nostri governi quasi sempre caduti a seguito di crisi di natura extra parlamentare. Temi attualissimi e importanti che investono gli n dualismi del paese (autonomia differenziata, banche locali, Europa, meridionalismo), in massima parte irrisolti o vittima di scorciatoie di parte e quindi interessate.

Infine, una nota personale che mi viene dall’ aver letto il libro e dall’aver conosciuto, seppure in poche e rare occasioni, Antonio Paolucci. Ho capito oggi, prossimo ai 70 anni, che quel che ho imparato, con scarsa consapevolezza all’epoca, negli anni del liceo mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.

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