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Presso l’Archivio storico della Pietà di Venezia, Istituto nato a metà del 1300 per ricoverare i numerosi bambini che venivano abbandonati in città, ho svolto per più di tre anni una ricerca sia per conoscere come era organizzata la vita nell’Istituto, sia per verificare se, tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, si delinearono anche per le figlie della Pietà nuovi scenari di emancipazione femminile. In Italia in quel periodo nella società avvenne un forte rinnovamento con l’apertura di grandi fabbriche che si avvalevano di manodopera femminile, con la diffusione della scolarizzazione, con la proposta di nuovi modelli culturali. Anche le esposte ne furono coinvolte?
La lettura di circa mille fascicoli personali e di numerosi documenti (relazioni sanitarie, deliberazioni, regolamenti) mi ha fatto conoscere moltissimi aspetti della vita di queste bambine dal momento dell’accoglienza fino alla maggiore età o al matrimonio, ma spesso anche in seguito perché il rapporto che avevano con l’Istituto frequentemente continuava anche fino alla vecchiaia.
Conclusa la consultazione, ho raccolto in venticinque brevi capitoli (76 pagine di testo a cui si possono aggiungere delle fotografie) vari argomenti (l’abitazione, la scuola, i matrimoni, il manicomio,…) facendo attenzione a indicare, accanto al nome di ogni esposta, il numero progressivo che la identificava e l’anno di nascita così da permettere a chiunque oggi voglia frequentare l’Archivio di rintracciare facilmente la protagonista e di leggere l’intera documentazione che la riguarda.
I fascicoli delle esposte contengono documenti di tipo amministrativo: il verbale di accoglimento, la corrispondenza dell’Istituto con le famiglie che le avevano in custodia, con i Parroci o i Sindaci dei paesi dove vivevano, le schede sanitarie del medico della Pietà, le ricevute di pagamento o di sussidi concessi, certificati medici e anagrafici, pagelle o documenti scolastici, le lettere che le esposte inviavano alla Pietà, …Da questa documentazione emergono soltanto frammenti di esistenze molto simili tra loro.
Affidate, appena neonate, a famiglie della campagna veneta o friulana per garantire la loro sopravvivenza (in Istituto la mortalità era elevatissima), solo le più fortunate raggiungono la maggiore età presso quei genitori adottivi. Le altre passano da una famiglia all’altra, da un paese all’altro, come pacchi postali, sicuramente appetibili perché l’Istituto paga un compenso ogni tre mesi (la dozzina) fino ai dodici anni e paga anche un premio al compimento della maggiore età. Inoltre, appena grandicelle, esse contribuiscono all’economia domestica andando a servizio presso qualche famiglia benestante o aiutando nei lavori dei campi e del bestiame. Quando si sposano hanno anche una dote: cento lire!
Se vengono restituite, ciò avviene perché le condizioni economiche delle famiglie, già miserabili e precarie, peggiorano o perché la balia ha nel frattempo avuto altri figli o per malattia o morte dei genitori adottivi o per l’emigrazione all’estero della famiglia. Spesso, soprattutto se adolescenti, ritornano in Istituto a causa del loro comportamento indisciplinato. Ma non rimangono alla Pietà a lungo perché vengono riaffidate al più presto a una nuova famiglia. Nei decenni consideratil’Istituto si trasformò infatti da ricovero a vita a ricovero temporaneo di tipo ospedaliero che si prendeva cura dei bambini abbandonati e anche delle loro madri.
Due importanti leggi vennero approvate nell’Ottocento sulla scolarizzazione: la legge Casati del 1859 , ma soprattutto la legge Coppino del 1877 che rendeva gratuita e obbligatoria l’istruzione per tre anni elementari a cui poteva seguire un secondo ciclo di due anni, non obbligatorio né gratuito.
L’Istituto oltre a controllare che gli esposti frequentassero la scuola con assiduità (altrimenti poteva decidere di richiamarli o di sospendere il pagamento delle dozzine) introdusse per i nati dal 1898 un premio di proscioglimento scolastico da elargire quando il triennio inferiore era concluso prima del compimento dei dodici anni. Ai tenutari venivano pagate quaranta lire e all’esposto quindici.
Spesso i tenutari preferivano non mandare a scuola i bambini perché non dappertutto c’erano scuole o perché erano lontane da casa o perché c’era bisogno di aiuto per i campi e il bestiame. Durante la prima guerra mondiale molte scuole nell’area del fronte rimasero chiuse e non permisero la frequenza.
Nel capitolo “Una su mille ce la fa” racconto la storia di Ester che diventa maestra non solo grazie alle sue buone qualità ma soprattutto al sostegno che per anni le fornisce la Pietà: libri, quaderni, matite, inchiostro, soldi per ripetizioni, vestiario, alloggio e vitto,…
Anche altre esposte ce la fanno a diventare maestre o impiegate, con il costante aiuto dell’Istituto che sostiene i suoi figli più dotati.
Per quanto riguarda l’occupazione, l’Istituto esercitava un severo controllo e pretendeva di essere sempre informato sulla collocazione delle sue figlie fino alla maggiore età. Ad esempio proibiva che fossero affidate a tenutari che avevano un esercizio pubblico o che fossero occupate in caffetterie o in osterie.
Soltanto dopo la prima guerra mondiale si evince che l’Istituto è disposto a considerare la loro collocazione anche in ospedali, in case di cura, in alberghi e addirittura in fabbriche. Lo dimostrano le lettere di raccomandazione che la Pietà scrive garantendo per le sue figlie. Si rivolge alla fabbrica di tessuti Jesurum, alla Manifattura Tabacchi, al Pastificio Stuky, alla Mira Lanza, alle Maglierie Herion, al Cotonificio, alla Jungans, alla Vidal, le più importanti fabbriche dell’epoca.
Appartenere alla Pietà era sempre una garanzia sia nell’ambito del lavoro che in quello del matrimonio.