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I popoli antichi e la selvicoltura.
Selvicoltura significa impianto, allevamento, coltivazione del bosco. In origine costituiva l’arte empirica di coltivare i boschi e, nel tempo, essa ha assunto sempre più l’aspetto di “tecnica” in base alle esperienze ed ai bisogni dei popoli e cioè applicazione studiata di mirate tecniche colturali. Conoscenze, quindi, dell’albero con le sue caratteristiche biologiche e le correlazioni con l’ambiente dei singoli componenti la biocenosi boschiva.
La prima fase della selvicoltura ha il carattere di “culto” arboreo ed in molti casi il bosco era considerato sacro con rispetto e considerazione da parte dell’uomo, affascinato e timoroso dell’atmosfera religiosa emanata dalla foresta.
Pertanto, alla selvicoltura antica può senz’ altro attribuirsi una funzione di protezione e salvaguardia del bosco ed anche delle sorgenti e del suolo. Nell’antica Palestina esisteva una legge che vietava il taglio degli alberi e dei boschi nei territori nemici. Questa legge si ritrova nel Deuteronomio (quinto ed ultimo libro del Pentateuco, parte della Bibbia) che consta di 4 discorsi esortativi di Mosè agli Ebrei.
Nell’India si uccidevano i violatori dei boschi sacri e carattere di culto aveva la selvicoltura presso gli Egizi, i Fenici, i Persiani.
In Grecia i boschi sacri erano amministrati da sacerdoti che dirigevano i tagli condotti con criteri conservativi ed i rami e le fronde tagliate per sacrifici venivano vendute cosicché la classe dei sacerdoti aveva una fonte di reddito.
Aristotele introduce il concetto di economia forestale (Alsokomia) e Polluce individua l’Alsopoeia (costituzione del bosco) e la Fiturgia (coltivazione) e distingue le fasi fondamentali della selvicoltura (ilurgia = governo del bosco; ilotomia = taglio del bosco; ilagogia = trasporto dei legnami).
Tuttavia, i Greci, come del resto i Romani ed altri popoli eredi del culto degli alberi e dei boschi della civiltà greca, furono grandi distruttori di boschi per motivi economici, militari e per dare spazio alla pastorizia ed all’agricoltura.
Le guerre devastatrici ed il naturale cambiamento del clima
“Egido, mostro ignivomo generato dalla terra, corse le selve dalla Frigia al Tauro ed alle Indie, e tutte le arse: poi ripiegando, incendiò quelle del Libano, della Fenicia, della Libia e dei monti Cerauni, donde calando, fu vinto ed ucciso dalla dea Atene nelle pianure dell’Epiro (Diodori, bibl. histor. III, 70; V, 73- Virg. Aen. VIII, 435- Ovid. Dast. III, 847; Met. V, 46).
Questo mostro fu ideato per rappresentare le guerre devastatrici dei primi conquistatori (Lucret. V, 1242-1248), e particolarmente per esprimere il bisogno, che aveva la crescente società, di diradare le selve primeve per farsi strada alla coltivazione delle biade e degli alberi da frutto insegnata da Atene.
Così al tempo dei Fenici, furono abbruciate le foreste di quella catena di monti che ancora per questo fatto conserva il nome di Pirenei” (Diod. Sic. V, 55) – (da Adolfo di Berenger, “Studi di Archeologia forestale”, Treviso e Venezia 1859-1863).
Dai primi grandi disboscamenti e da cambiamenti climatici che conducono al caldissimo ed arido clima dell’Africa e dell’Asia Minore, ebbe origine la desertificazione con le conseguenze che tutti conosciamo.
La selvicoltura romana
La selvicoltura romana presenta un carattere più evoluto e molte norme tecniche si possono ancora considerare valide. I boschi sacri, detti Luci, erano dedicati a divinità silvane, mentre quelli profani venivano distinti in:
Quindi, insieme a Varrone, Plinio, Columella, conosceva molto bene i vari aspetti, anche biologici, della Selvicoltura e molte dissertazioni sono tutt’oggi di notevole interesse (Alessandro De Philippis, “Ecologia forestale e Selvicoltura generale” – Firenze 1948).
Oltre alle cause principali già viste della distruzione dei boschi, altro motivo di depauperamento forestale fu l’accentramento della proprietà terriera a pochi privati ed il diffondersi del cristianesimo con la distruzione dei boschi sacri pagani.
Il periodo feudale e gli ordini religiosi
Nel periodo feudale la situazione peggiorò ulteriormente.
Carlo Magno cedette molti boschi alla Chiesa la quale, a sua volta, li svendé ai privati i quali li devastarono. Solo la passione per la caccia dei feudatari valse a salvare e ricostruire parte delle primigenie selve italiche (Ciminia, Litana, Cumana, Aorna, Angizia, Sila, Minturna, Carminianense, Scanzia, insieme ad altre ricordate da storici Diomedea, Lupanica; Fetontea, Lugana, Pineta, Modenese, Mesia, Faleria, Aria Cere, selve della dea Feronia e quelle lungo i fiumi Po, Adda, Mincio; Pesaro, Tevere, Tenagro, Selo, Clitumno, Garigliano, Tivoli).
“Una qualche luce nel disordine forestale e montano si ebbe con gli Ordini religiosi che protessero molte aree boschive e ne crearono di nuove, come ad esempio i Vallombrosani ed i Camaldolensi.
Ma se è vero che questi religiosi sono stati degli insigni selvicoltori con statuti e precise regole, è anche vero che hanno contribuito alla trasformazione dei boschi naturali di faggio ed abete bianco (Fagus sylvatica – Abies alba).
Consorzio vegetale, questo, che rappresenta la massima stabilità biologica per cui si ha la rinnovazione naturale e quindi la perpetuazione del bosco, per ambedue le specie, in particolare per l’ abete che si riproduce solo se in forme disetanee (piante di diversa età) misto al faggio e ad altre latifoglie, ma non in purezza.
Per scopi commerciali l’abete bianco era molto ricercato (alberi per navi, travature, ecc.), ma i gruppi di abete nelle faggete si esaurirono per cui questi monaci diffusero la monocoltura dell’abete bianco utilizzandolo a taglio raso e rinnovandolo artificialmente dopo aver alternato colture agrarie (orzo, avena, grano, ecc,)”. (“Il paesaggio agrario-forestale toscano nel XV secolo e sue trasformazioni” – A. Gradi e autori vari, da “L’arte al potere. Universi simbolici e reali sulle terre di Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico”. Editrici Compositori, Bologna 1992.)
Con la fine del feudalesimo e l’aumento degli scambi tra i popoli, continuano l distruzioni dei boschi, ma al principio del XVI secolo comincia un periodo di “repressione degli abusi”.
La Repubblica di Venezia, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio
La Repubblica di Venezia nel 1501 promulga una Legge con cui l’amministrazione delle foreste viene assegnata al Consiglio dei Dieci che emana rigidi provvedimenti repressivi istituendo un catasto dei boschi per cui diveniva difficile frodare la Repubblica peraltro bisognosa di particolari assortimenti legnosi per il suo arsenale navale.
Anche Cosimo I dei Medici provvide a promulgare Leggi repressive con pene persino capitali ed ugualmente fece lo Stato Pontificio. Tuttavia, i risultati furono di segno completamente opposto. I funzionari del Granducato di Toscana (e,successivamente, anche al tempo dei Lorena), evidentemente chiudevano un occhio, e forse anche due, nel controllo dei devastanti tagli boschivi sugli Appennini talché i fiorentini, abituati a rovinose piene dell’Arno, quando iniziavano forti piogge, esclamavano: “Piove Governo ladro!”. Oppure: “Se non smette di piovere le anatre beccheranno le stelle!”.
Lo Stato Pontificio, con il celebre editto del Nembrini, consentiva solo la raccolta del legname caduto naturalmente nel bosco. Come autorizzazione veniva consegnato un “bastone” con particolare sigillo. Negli “usi civici” dei boschi si ritrova il diritto di legnatico, di pascolo, ecc. regolarmente quantificato per i residenti.
Queste notizie riaffiorano qua e là in vari scritti e, anche se appannate dal tempo, nella memoria degli antichi boscaioli, in particolare dei carbonai che da generazioni vivevano in capanne a struttura lignea ricoperta da piote erbose.
Bocca Trabaria, tra le province di Perugia e Pesaro Urbino
Sui monti di Bocca Trabaria (Massa trabaria dei Romani) i luoghi erano talmente inaccessibili che chiunque fosse riuscito a giungervi poteva tagliare il bosco. Ma allora come avranno fatto i boscaioli romani a trarre a valle da quelle scoscese “macchie” le travi successivamente fluitate nel Tevere fino ai cantieri navali di Ostia? Il nome Trabaria, come tanti altri in Valtiberina, deriva appunto dal fatto che da quei monti si ricavano grandi tronchi per le triremi romane. Queste notizie risultano anche da una memoria di un notaio di S. Angelo in Vado (1600) e la liberalizzazione dei tagli sarebbe stata possibile finché non si definirono con esattezza le proprietà ed i loro confini.
Nelle veglie invernali i vecchi contadini, raccontando storie tramandate dai loro nonni, dicevano che “un tempo” occorreva un apposito bastone quale autorizzazione al “legnatico” (fare legna) il che si potrebbe ricondurre all’editto Nembrini dello Stato Pontificio eccessivamente draconiano per la difesa del bosco o comunque ad analoghe iniziative di grandi proprietà boschive a carattere feudale.
Nuove linee della Selvicoltura
Verso la fine del 1700 e nel 1800 la Selvicoltura si avvia in Germania ed in Francia su due linee molto diverse.
H. Von Carlovitz (1713) con il suo trattato “La Selvicoltura economica” e la Scuola forestale di Tharandt (1813) conducono ad una Selvicoltura inquadrata in rigidi criteri applicativi pur se poi Cotta H. (1816) reagisce alle rigide generalizzazioni (Hartig 1791). Tuttavia, la Selvicoltura tedesca segue i principi economici del massimo reddito per tutto il 1800 anche per necessità derivanti dall’industrializzazione del Paese notevolmente bisognoso di legname.
I francesi Colbert (1669) con la celebre “Ordonnance forestiere” e l’eclettico Duhamel Du Monceau (Trattato “Del governo dei boschi”), danno avvio ad una moderna scienza forestale. Successivamente la Scuola forestale di Nancy (1814) subì l’influenza della Selvicoltura germanica ma poi ritornò ai princìpi nazionali tradizionali e più naturalistici.
In Italia le lotte politiche del 1800 non agevolarono il progresso della Selvicoltura in termini scientifici che subì, comunque, in parte l’influenza tedesca.
Fondamentale è l’opera di A. Berenger, direttore della Scuola forestale di Vallombrosa, “Studi di Archeologia forestale” (1859 – 1865) e quelle di Perona, Piccioli e Pavari. Quest’ultimo imprime alla Selvicoltura italiana un orientamento più “ecologico” che consiste nello stabilire di “quanto ci si possa allontanare dalla natura senza arrecare danno a noi stessi” (Dengler).
Continua.
Una storia che dovremmo tutti conoscere per capire come si è involuto il nostro rapporto con i boschi, le selve e le foreste, uno dei vertici del triangolo dell’inquinamento. Gli altri sono la distruzione delle api e dei mari. Bees, Trees, Seas, parole facili a ricordare, anche in inglese.
Chiar.mo Professore, ricordo a suo onore, due o tre versi del monologo finale di Harrison Ford nella scena del film di Blad Runner 1982: “ha visto cose…, Lei, che noi uomini (non persone venute dopo) non possiamo neppure immaginare…”
Come ha fatto Lei, Docente, Accademico tra i più influenti, in campo specificatamente dell’applicazione delle leggi a favore della Montagna, a sopportare, tollerare, tutto ciò?
Mi rispondo che è stato il suo lavoro ad aiutarlo, su argomenti scientifici e pubblicati poi, attraverso i canali di comunicazione della comunità scientifica internazionale , tipicamente su riviste accademiche (secondo le regole della revisione paritaria, entrando di diritto a far parte della letteratura scientifica), dandole la speranza che ciò a cui era dedicato non fosse vano e illusorio. E ciò, senza alcuna ostilità, mi permetta di essere anche un po’ invidioso anche per le opportunità assai più preziose e formative che ha certamente avuto di crearsi quella dimensione estetica (non esteriore, vero) di cui sopra.
Pregherei i lettori, senza attendere le successive pubblicazioni “breve storia delle foreste” di leggere gli articoli del Prof. A. Gradi “la tragedia delle foreste amazzoniche, polmone della terra; le anatre beccheranno le stelle? O del disordine idrogeologico nazionale” pubblicati su Economia & Finanza Verde.
Con comprensione, complice affetto e auspici per il suo lavoro.