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Cosa farei con tre miliardi

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Nel 2016 la casa editrice Henry Beyle ha pubblicato, nella collana ‘Piccoli quaderni di prosa e di invenzione’, un libricino con uno scritto di Goffredo Parise (Vicenza 1929 – Treviso 1986). Mi è arrivato per posta, dentro una bustina trasparente che conteneva anche una altrettanto piccola stampa di un dipinto di Paul Gauguin (Parigi 1848 – Atuona 1903), intitolato Nave Nave Mahana, riprodotto in alto. Il componimento di Parise è breve, si tratta di un suo articolo uscito sul Corriere della Sera il primo dicembre del 1982, dopo che, tre giorni prima, in un bar di Cologno Monzese un gruppo di amici aveva investito 8.000 lire realizzando un tredici al Totocalcio e andando a vincere 3 miliardi, 80 milioni e 299.000 lire. Il Corriere ha così domandato allo scrittore vicentino di immedesimarsi con i beneficiari di questa ricca somma e di scriverne qualche riga. Cosa effettivamente farebbe il Parise degli anni Ottanta con più di tre milioni di lire, lo svela circa a metà articolo: acquisterebbe, dal museo che lo ospita, il dipinto di Gauguin citato sopra, un quadro molto grande dipinto su una tela di sacco rozza. E perché lo comprerebbe? Perché, ci dice, “rappresenta l’esotismo tout court”. Sostiene che lo guarderebbe poi a lungo, facendosi scivolare addosso, e dentro, tutta la magia che raffigura, con i personaggi dalla pelle ambrata vestiti di parei sotto alberi da frutta, sopra una terra tahitiana rosso acceso. E poi? Poi “non saprei che farne e lo ridarei ad un museo”. Ci tiene a sottolineare di non avere alcun senso della proprietà, proprio lui nato e cresciuto in Italia, in Europa, figlio quindi di una storia sociale costruita proprio sulla proprietà, sul mio e tuo. “Ritengo che la vera proprietà sia l’uso delle cose e non il suo possesso”, scrive. Ma allora, ci si chiede, allora cosa bisogna avere di nostro? Niente? Come si fa a vivere senza niente? Ci risponde sempre Parise quando, già nel 1974, pubblicava, già nel Corriere della Sera, un articolo in cui sostiene che “il rimedio è la povertà”. Non la miseria, precisa, ma la povertà, ovvero l’essenziale e non il superfluo. Ma torniamo al volumetto della Henry Beyle. Nel 1982 ribadisce il suo concetto di povertà sostenendo che in fondo lui di 3 miliardi non saprebbe che farsene, lui mai ha dato peso al denaro, o almeno nessun valore più del necessario. E che cos’è questo necessario? Risponde con uno dei suoi tipici lampi fluorescenti e un po’ sibillini: “necessario è avere una casa, da mangiare, e necessari sono anche i capricci”. Un luogo che sia “casa”, certo, e da mangiare, saziarsi con misura, magari con un bicchiere di vino (che lui amava). Poi c’è questa parola meravigliosa, i capricci, che addosso a lui veste alla perfezione, a lui che si faceva spedire stoffe costose dall’Inghilterra e poi cucire abiti su misura dai migliori sarti. A lui che, di contro, andava in giro con una Panda verde scassata, con il cofano rotto tenuto chiuso da una corda legata con un nodo. C’è chi invece preferisce una bella macchina da tenere pulita e da lucidare la domenica mattina. C’è chi rinuncia a qualche lusso per concedersi una cena al ristorante gourmet. C’è chi ha l’ossessione per le scarpe di pelle, o per le borse, o chi ogni cinque anni rifà nuova la cucina, chi una volta alla settimana si fa coccolare da parrucchieri ed estetisti, chi colleziona bicchieri di vetro di Murano, chi ha il telefonino ultimissimo modello, chi un’immensa libreria con tutte le uscite Adelphi, le prime edizioni e quelle antiche introvabili. Ognuno ha i suoi leciti (anzi vitali!) capricci. E io voglio augurarmi che i giovani (e meno giovani) precari d’oggi, disoccupati, in cassa integrazione, con un mutuo quarantennale da pagare, o senza neanche la possibilità di accenderlo, mi auguro che chi non fa figli per paura di non farcela da solo, chi si fa mandare i soldi dai genitori perché non arriva alla fine del mese, chi viaggia con il bollo scaduto perché non può rinnovarlo, chi fa la spesa calcolando quanto spende perché in tasca ha solo 20 euro, mi auguro che queste persone, e cioè noi, io e te che leggi, mi auguro che tutti potremo, almeno di tanto in tanto, concederci qualche sano e salvifico capriccio. E sono certa che Parise sarebbe d’accordo con me.

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