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Fotografia del dolore

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Tempo di lettura: tre minuti. Per la riflessione, molto di più. Test leggibilità **.

Oggi affronto un tema impegnativo, non come quelli del mio solito “cazzeggio”, quando racconto la mia vita libera dopo tanti anni di lavoro o la mia visione del mondo attraverso la fotografia. Tanto per capirci, “cazzeggio” quando a ruota libera parlo dei fattori che sprigionano la fantasia dei fotografi. E mi soffermo sull’importanza del Caso e del Culo nella nostra arte, suscitando qualche ilarità. Anche se devo dire che, quando riesco a spiegare fino in fondo ciò che intendo, riscontro un certo interesse e sento nascere anche un po’ d’invidia per la mia libertà di scegliere il tempo.

Oggi però voglio essere estremamente serio. Voglio parlare della fotografia che ferma il dolore, che cristallizza le scene private e pubbliche di disperato e inutile dolore. Come quelle riprese, ad esempio, dopo una catastrofe naturale o dopo le ammazzatine di mafia.

Ho in verità più esperienza visiva delle seconde, attraverso la sequenza interminabile di lenzuoli bianchi stesi con burocratica pietas sulle vittime. La grande fotografa Letizia Battaglia ha scritto la storia tragica d’Italia e della Sicilia degli ultimi decenni a mezzo di quelle foto. Dolore di cittadino!

Ma non sono solo queste le carneficine alle quali la nostra squinternata società ci impone di assistere.

Sono stato in visita alla mostra fotografica dedicata agli incidenti stradali, organizzata a Palermo da Roberto Strano, dal titolo “Strade senza ritorno”.

Il luogo é il Centro internazionale di fotografia, promosso dall’Eminenza BATTAGLIERA che tutto benevolmente sopraintende, come, con rispettoso affetto, il mio amico Pippo Pappalardo, chiama Letizia.

È lo stesso ambiente che ha appena finito di accogliere la notevole mostra di Josef Koudelka incentrata sulla fine della “primavera” di Praga: “Invasion Prague ’68”, evidenza di dolore politico, individuale e collettivo.

Da R. Casati L’ultimo istante

Alla mostra di Strano non ci sono andato per caso. Mi ha spinto anche un articolo che avevo letto su questa piattaforma dal titolo L’ultimo istante.

In esso il suo autore Roberto Casati sosteneva il fine educativo dell’arte nel sensibilizzare giovani e meno giovani di fronte ai massacri sulle strade.

Erano riprese scioccanti di incidenti, di mutilazioni, di disperazioni incredule e assolute. Le immagini erano rese ancor più efficaci dal loro trattamento artistico, a’ la Andy Warhol. I colori erano usati come contrasto ultimo prima del buio finale.

Io ho invece deciso di rispettare in toto l’allestimento cupo della mostra, scattando foto per lo più in bianco e nero. Ho scelto fin da subito di riprodurre fotograficamente il buio. È il buio la sensazione dominante dopo un grave incidente.

Non ho voluto soffermarmi sui particolari di alcune scene veramente crude, anche se il senso lasciava pochi margini per allontanarsi dalla tragicità del tema.

Ho trovato nella esposizione di Strano lo stesso nobile intento del lavoro prima citato: quello di fare della fotografia un mezzo pedagogico di contrasto alle nostre follie di guidatori lanciati verso inutili mete.

E di profondo senso pedagogico ho trovato le descrizioni dI Pippo Pappalardo a commento delle sequenze più tragiche.

Le fotografie esposte richiamano le vecchie regole di stampa e l’ottima fattura rafforza i contenuti intensi, crudi, tragici, mai speculativi e, soprattutto, di una bellezza agghiacciante. Le fotografie non costituiscono solo documenti rappresentativi d’incidenti, sono l’amalgama di sentimenti forti e disperati.

Le tragedie dell’infortunistica stradale sono rappresentate con efficacia, alternando evidenze esplicite e scene allusive che mantengono la morte e la disabilità nascoste, ma sempre presenti. Incombenti. Come non notare il parallelismo con le scene di guerra, che, lontane eppur vicine, ci accompagnano quotidianamente!

La sintesi dell’evento, riportata in brevi frasi in quarta di copertina del catalogo della mostra, concettualizza al meglio il significato della difficile operazione.

Scrive infatti Roberto Strano:

“Ho sempre creduto nella forza delle immagini”. “Mi sono sempre chiesto se fosse etico raccontare il dolore”. “Ho sempre cercato di non spettacolarizzarlo, di raccontarlo con rispetto, con la speranza di scuotere la coscienza dell’uomo”. “Il giorno che non crederò più in tutto ciò smetterò di fotografare”.

 

 

Nella circostanza ho avuto modo di conoscere l’affabile autore. Con disponibilità, ha dedicato tempo ai visitatori intervenuti alla inaugurazione, raccontando curiosità e aneddoti sull’origine della mostra. Ci ha riferito anche dell’inaspettato contributo spontaneo pervenutogli da Pippo Pappalardo che, con i suoi originali e intensi scritti, sottolineava il messaggio di certe sequenze.

E cosa ancora più importante proponeva il valore educativo della mostra per coinvolgere scolaresche di adolescenti e giovani, che lasciano sulle strade un tributo di sangue sempre maggiore.

Prima di procedere alla pubblicazione, ho sottoposto l’articolo all’esame dell’amico Pippo, il quale mi ha risposto con le seguenti parole.

Ti ringrazio per l’apprezzamento del lavoro fotografico che hai rivolto all’amico Roberto Strano e che hai espresso in occasione della sua mostra al Centro della Fotografia di Palermo, formulando una recensione capace di tracciare letture parallele di quanto rappresentato.
A nome mio, che vi ho collaborato, e a nome di Roberto ti ringrazio dell’attenzione che ti ha distratto dall’amato cazzeggio. In altra occasione ti dirò meglio che cosa penso di questo nobile e proficuo atteggiamento, di radici antichissime, se non addirittura classiche”.

Oggi, no Pippo! Grazie. La circostanza della Mostra era troppo seria per parlarne.

Buona luce a tutti!

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