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La riforma delle regioni. L’erba del vicino è sempre più verde

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L’essenza delle tante riforme regionali

Ognuno vuol essere quel che non è. E’ passato molto tempo da quando Gaetano Salvemini tuonò dicendo che nella Costituzione appena varata nel 1948 le regioni emergevano come un vaso con niente dentro.

I tempi sono cambiati e ogni regione ha un suo modello o lo sogna come il doppio di ciò che è.

Avremo, se le cose vanno per il loro verso, regioni a statuto speciale (Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli V.G. e Sicilia), le due province di Trento e Bolzano, due Regioni pienamente differenziate (Veneto e Lombardia), una meno differenziata (Emilia Romagna) e tutte le restanti, rimaste tristemente ordinarie, a presentare ricorsi o progetti di trasformazione per una loro doverosa qualificazione.

In modo iterativo ed imitativo, in questi giorni di febbraio si sono aggiunte altre 8 regioni ordinarie ai pretendenti al regime differenziato, tra cui Toscana e Campania, amministrate dal PD. Da parte sua Forza Italia ha invece presentato in Consiglio Regionale a Napoli un progetto per una Macroregione del Sud. Ce n’è per tutti i gusti. L’autonomia regionale in Italia è servita à la carte.

Per gli aspetti prettamente giuridici rimandiamo al sito della Camera.  Lì si trova un’esauriente spiegazione di cosa è il regionalismo asimmetrico, differenziato o rinforzato. Cosa sta accadendo dunque?

Fermiamoci alle intese più definite, che comunque sono molto diverse fra loro.

Il decentramento stile Emilia è limitato ad alcuni punti delle materie concorrenti indicate nell’articolo 117 della Costituzione. Quello del Lombardo-Veneto riguarda invece tutto ciò che è possibile decentrare delle 23 materie. Vi ritroviamo scuola, sanità, ambiente, rifiuti, territorio, protezione civile, finanza locale, commercio estero, rapporti con l’Unione europea, infrastrutture stradali e ferroviarie, porti e aeroporti, demanio, sistema camerale e altro.

In più, mentre il progetto dell’Emilia glissa sui meccanismi di finanziamento delle nuove funzioni, quello del Lombardo-Veneto è più che determinato a che tutto debba essere finanziato con la compartecipazione dei tributi erariali. Questo principio è d’altronde conforme alla giurisprudenza costituzionale. Se si decentra una funzione a una Regione bisogna attribuirle le corrispondenti risorse finanziarie.

Naturalmente, su alcuni nodi l’accordo ancora non c’è e dovrà essere trovato in Consiglio dei ministri e in Parlamento. Sarà comunque un lungo percorso attuativo sotto forma di decreti governativi.

E’ un progetto strampalato come appare o vi sono esigenze sociali ed economiche più profonde? Forse radicate nello sviluppo economico asimmetrico del nostro paese tra Nord e Sud. Da non impallidire più di tanto se pensiamo alla questione catalana, alla Brexit e ad altre regioni europee in cerca di autonomie. Segno dei tempi moderni, tra i due corni del dilemma: quello della globalizzazione e quello della frammentazione di chi non riesce a rientrarci a pieno titolo e cerca propri contorti percorsi. Gli effetti non sono affatto neutrali.

Divari irreversibili

Due punti ci sembrano chiari. Vi è una certa dose di irreversibilità nei progetti in atto, tutti previsti da norme costituzionali. Sarà anche una fuga in avanti, ma nel suo insieme essa è legittima. Difficile tornare, indietro dunque.

L’altro aspetto, quello decisivo, è molto più complesso ed è di natura socio-economica, perchè nasconde la mai risolta questione meridionale. Non è il caso di riaprirla qui e quindi ci atteniamo a un paio di misure dei divari che si sono drammaticamente formati:il PIL pro capite e la spesa per i servizi sanitari per mobilità passiva.

Relativamente al primo indicatore (Conti Territoriali ISTAT) si hanno più di 42mila euro a Bolzano e poco più di 17mila in Calabria e Sicilia. Tra questi due estremi vi è la media nazionale di 28.500 euro a testa.

Dati ISTAT – Conti economici territoriali (2018)

Al di sotto di questa soglia ci sono tutte le regioni da Roma in giù. In Abruzzo il PIL pro capite è 24.400 euro, in Sardegna e Basilicata si aggira sui 20mila, scende a 19mila in Molise e a 18mila in Puglia, per toccare i detti minimi in Sicilia e Calabria. Vale la pena di sottolineare che nella parte alta della graduatoria tra il 2011 e il 2017 il PIL nelle regioni del Nord aumenta, mentre al Sud diminuisce in modo generalizzato.

Questi numeri sono sufficienti per capire il divario ulteriormente apertosi tra Settentrione e Meridione. Ad esso si associano differenze notevoli nella qualità dei servizi di competenza regionale. Quelle relative ai servizi sanitari si riflettono anche sul costo della cosiddetta mobilità passiva.

Si tratta dei malati che dal Sud del Paese vanno a curarsi nelle strutture ospedaliere del Nord Italia perchè più efficienti. Negli ultimi anni, il numero ha oscillato tra i 50.000 e i 100.000 l’anno, dando luogo a squilibri monetari nell’erogazione delle prestazioni. Infatti essi sono ripianati dalle regioni di origine in sede di riparto del Fondo Sanitario Nazionale.

Il paradosso, che ha tuttavia una sua ferrea logica, è che oltre a pagare per i servizi sanitari al Sud un residente paga anche per coloro che si recano al Nord. Cioè per coloro che si possono permettere spese di viaggio e di soggiorno lontano da casa.

Fonte: Report Osservatorio GIMBE (2018)

Il rapporto della Fondazione GIMBE  identifica le prestazioni erogate ai cittadini al di fuori della Regione di residenza. In termini di performance esprime il cosiddetto “indice di fuga” e in termini economici identifica i debiti per mobilità sanitaria passiva di ciascuna Regione.

Le Regioni con maggiore indice di fuga sono Lazio (13,9%) e Campania (10,1%) che insieme contribuiscono a quasi un quarto della mobilità passiva. Un ulteriore 23% si concentra in Calabria (7,5%), Puglia (7,4%), Sicilia (6,5%). Il rimanente 55% della mobilità passiva si distribuisce nelle altre 16 Regioni. Il rapporto tra le regioni sopra indicate e tutte le altre è di tre a uno.

Conclusioni

Che dire in conclusione? Anni di regionalismo sembrano aver ulteriormente confinato il Sud dentro le sue mura, consegnandolo a una classe dirigente incapace di organizzare servizi essenziali sul territorio.

Il contributo alla riduzione degli squilibri della sanità regionale è sostanzialmente fallito. Nelle regioni del Sud, come ci dicono i dati, non si è stati infatti capaci di diffondere significativamente standard e protocolli sanitari simili a quelli delle regioni più avanzate.

Ciò comporta che il Sistema Sanitario Meridionale si sobbarca una sorta di sussidio alla rovescia, finanziato da chi paga le tasse al Sud e non andrà mai a curarsi al Nord. È una costosa contraddizione, di cui si dovrebbe dare pubblicamente conto e che finora non vede miglioramenti.

Il paradosso è politicamente ancor più evidente se si pensa che il Sud è stato plasmato per decenni da governi regionali ispirati a ideologie egualitarie di matrice cattolica e comunista.

Purtroppo alle tendenze autonomistiche delle regioni settentrionali non vi è contraltare. Per intenderci non vi è un piano B che possa far sperare in qualche miracolistica soluzione a vantaggio del Sud. Se a questo aggiungiamo i principi ispiratori del reddito di cittadinanza,  il Sud si riappropria della sua storica arretratezza, enfatizzando e certificando il suo bisogno di assistenza.

Reddito assistenziale per molti, mentre chi può va a curarsi al Nord, a spese dei suoi concittadini. Nessuna prospettiva di invertire la tendenza in atto per un più equo soddisfacimento dei bisogni sanitari in loco.

L’emergere di una nuova e moderna classe dirigente di maggiore responsabilità verso la collettività è impresa difficilissima, ma irrinunciabile.  È forse l’unica prospettiva alla quale richiamarsi. La demagogia non potrà invece essere di grande aiuto.

 

 

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