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L’Aquila

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A dieci anni dal terremoto de L’Aquila (ore 3 e 32 del 6 aprile 2009, Magnitudo 6.3 Richter), molti media ricordano in questi giorni l’accadimento. Per raccontare l’evento e rendere conto della lenta e dispendiosa ricostruzione.

Ho visitato la città nel 2013, a quattro anni dalla sua distruzione, vivendo l’atmosfera che continuava ad avvolgere quei luoghi. Ebbi voglia di raccontare a caldo le mie impressioni scattando anche molte foto.

“Appunti di una domenica a L’Aquila.

Ho visitato L’ Aquila terremotata per vedere lo stato delle cose a quattro anni dal sisma.

Dopo un processo mediatico che è riuscito prima a spettacolarizzare il tragico evento, poi a commentare con sussiegosa costernazione le speculazioni succedutesi, de L’Aquila e degli aquilani ormai si parla poco.

Come ogni notizia ed evento odierno, per quanto importanti, sono velocemente bruciati, così il traumatico terremoto è passato nel dimenticatoio, superato da altri fatti balzati alla cronaca e chi se ne importa della gente ancora abbandonata a se stessa e parcheggiata in “oasi town” sorte a mo’ di urgenti supporti logistici, ma rivelatesi in pratica redditizie occasioni di arricchimento.

Eppure per pochi giorni la città, o per meglio dire il suo scheletro intristito, era balzata all’attenzione del mondo intero ed il governo del tempo era pure riuscito a ottenere aiuti dagli stati esteri, attraverso un improvvisato trasferimento in loco del G20 in cui diversi statisti non poterono esimersi da impegni umanitari.

Obama assunse il suo buon impegno, Putin non poté essere da meno e così fecero gli esponenti di Francia, Inghilterra, Germania e altri paesi.

Ma come si sa, spenti i riflettori le scene si oscurano e se in più le genti del luogo non hanno adeguata rappresentanza, e’ pressoché automatico che il tutto passi nel dimenticatoio.

Vedere L’Aquila oggi forse è più impressionante che subito dopo il terremoto con le urla disperate, le sirene, i rumori delle ruspe, le fotocellule accese, i cantieri aperti per la rimozione delle macerie e la erezione delle abbondanti e, forse in qualche caso, esagerate puntellature che ora ne acuiscono la drammaticità.

Per rendere fruibile il Duomo ne è stato intramezzata l’area interna, occultando con un muro la zona dell’abside che necessita di ulteriori interventi. Per eliminare l’emblematica scritta divelta della Prefettura (diventata emblema visivo del sisma) si è provveduto alla sistemazione della parte attinente alla sola dicitura, riallineandone le lettere. Per non parlare dello stato di abbandono in cui versa la quasi totalità degli edifici dei quartieri periferici.

Vicino alla Casa dello Studente, transennata, che si presenta come un monumento alla memoria di un dolore indicibile, è possibile ancor oggi fotografare un palazzo collassato di un piano. Sotto quelli che furono i box dello stabile è tuttora visibile la carrozzeria di un’auto rimasta schiacciata.

Come si è potuto speculare sulla Casa dello Studente, sbriciolatasi sotto le scosse!

In quale altro paese sarebbe mai potuto accadere? 

Per chi vi si dovesse recare, suggerisco di porre l’attenzione sui marchi che etichettano le imbracature e le transenne degli edifici o di quello che ne resta, abbondantemente puntellati per la messa in sicurezza. Spettacolari quasi fossero opere d’arte moderna le spropositate tubature in metallo si intrecciano in reti quasi inestricabili allo sguardo. Simboliche reti, anche. Viene il dubbio che possano essere esse stesse fonte di improprie e perenni rendite.

A distanza di tempo, ciò che rimane nella mente è il desolante silenzio dei luoghi e di quel che ne resta. Interi quartieri che sembrano appena abbandonati vengono ora visitati dai tanti evacuati nel giorno di festa, come in pellegrinaggio. Il deserto si rianima per un po’. Ma è un’opprimente processione di anime.

Mi ricordo ancora di quell’anziano professionista e della sua compagna che, rievocando la paura ancestrale di quella notte, ancora si commuovono e alla fine mi domandano: “Lei lo sa che significa vivere in maniera promiscua per un così lungo periodo, sotto una tenda?” Chissà quale sarà la loro storia nei prossimi anni?

E che dire di quella signora che viene in visita da una delle tante “newtown”, dicendo di sentirsi quasi una rompiscatole nel reclamare suoi diritti, senza più referenti ai quali rivolgersi?

Infine, ho ancora negli occhi quella coppia di anziani ultrasettantenni che, scesi dalla loro utilitaria, girano, con lo sguardo perso attorno al loro edificio di periferia chissà per quanto ancora inaccessibile. All’ingenuo mio incoraggiamento, mi hanno risposto scettici: “Ma ci ha visto bene in faccia? Ha visto come stiamo messi? Secondo lei, alla nostra età sarà verosimile rivedere ripristinata la nostra casa?”.

Metto il link alla lunga sequenza di foto, che ricordo di aver scattato con crescente sgomento per tutto il tempo che sono rimasto in città. Non penso neanche per un momento che vi annoierete a guardarle. Sono certo che rappresentano ancora buona parte dello stato dell’arte.

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