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Banche e questioni di lesa maestà

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Negli ultimi giorni si è posto con grande evidenza un tema, peraltro non nuovo. Quello se si possa o non si possa attaccare politicamente le Authority di settore, corpi intermedi determinanti in ogni sistema democratico moderno. Sgombriamo subito il campo da qualsiasi ambiguità. È delicato e pericoloso, soprattutto se lo si fa in maniera sgraziata e poco coerente come capita sempre più spesso ad opera di esponenti del governo in carica. E quindi è giusto che si siano levate autorevoli voci a difesa, sia al massimo livello istituzionale (Capo dello Stato) sia da parte dei più autorevoli media (Corriere della Sera).

Ma in democrazia si deve pur sempre mostrare che nessuno è al di sopra di ogni costruttiva critica. Altrimenti il rischio di sconfinare nel delitto di lesa maestà, che appartiene ad altri regimi politici, è sempre in agguato.

Ciò detto, sembra opportuno ritornare sul tema delle banche, che – non dobbiamo mai dimenticare – custodiscono i risparmi degli italiani. Tra depositi raccolti e titoli amministrati si tratta di 4.000 miliardi di euro.

Ora il refrain che ascoltiamo più di frequente negli ultimi mesi e’ che esse siano state rimesse in sicurezza, liberandosi in buona parte dell’enorme fardello dei crediti malati. È un buon viatico, anche se il processo non può dirsi terminato. L’ incidenza degli Npl è ancora la maggiore tra i paesi europei.

Il mercato inoltre non sembra valorizzare questo miglioramento. Da maggio a questa parte, infatti, i nostri campioni del credito quotati hanno perduto 36 miliardi di capitalizzazione. Si stima che questa perdita di ricchezza sia per non più del 4% da attribuire alle paure di nuove politiche del debito pubblico.

Si torna quindi a chiedersi quale sia la vera condizione delle banche, che, facendo poco o punto credito all’economia, non alimentano a sufficienza il loro circuito rischio-reddito-patrimonio. Senza nulla dire dei ritardi nel processo di consolidamento e nella attuazione delle riforme da anni in gestazione.

La risposta non può che essere la debole patrimonializzazione, che induce le banche ad essere iperprudenti. A ciò non sono estranee le nuove regole europee sul trattramento in bilancio dei crediti rischiosi. È divenuto obbligatorio svalutarli totalmente entro due anni se non garantiti e entro sette anni se garantiti. Non abbiamo purtroppo trovato proiezioni numeriche di questi effetti nemmeno nelle più recenti autorevoli analisi. La qualcosa alimenta ulteriori dubbi sulla sostenibilità di questo nuovo quadro regolamentare.

L’autoprotezione messa in atto dal sistema bancario avviene quando ci si aspetterebbe che l’attivita’ di intermediazione, fattore indispensabile per la ripresa,  agisse in tutt’altra direzione.

Anche questo minor appetito per il rischio non può associarsi con l’aver messo in sicurezza il sistema. Un sistema bancario statico e pieno di liquidità non può essere un sistema sicuro.

Se non abbiamo infatti bisogno di banche irresponsabilmente sperperatrici di risorse proprie e di risparmi altrui, come attestato dai numerosi fallimenti di questi anni, non abbiamo nemmeno bisogno di un sistema ripiegato su se stesso.

Siamo convinti che siano questi gli argomenti che le Autorità dovrebbero spiegare bene agli italiani. E se ricevono qualche pungolo anche dalla stampa, che in caso contrario rischia di diventare un difensore d’ufficio con sempre minore appeal, non sarà certo la fine del mondo. Difendersi dalle critiche e assumersi il torto di qualche errore è cosa comune anche per l’individuo.

Dopotutto nella testa del cittadino italiano risuona ancora l’impietosa conclusione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. La quale soltanto 10 mesi fa sentenziò lapidaria che l’azione di Banca d’Italia e di Consob era stata inefficace in sette casi di crisi bancaria su sette. E fece esplicito richiamo alla difesa del risparmio ai sensi dell’articolo 47 della Costituzione. Di quanto sia stato fatto da allora si desiderebbe avere maggiore contezza, convinti di non compiere nessun delitto di lesa maestà.

Ma soltanto di tentare un piccolo contributo per mantenere la concentrazione sulla questione della fiducia e sui rischi dell’autoreferenzialita’.

 

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