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Olio di oliva: tra proprietà nutriceutiche e sviluppo del settore

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Vincent Van Gogh, Raccoglitrici di olive, 1889

Tempo di lettura: cinque minuti.

Principi nutritivi e salutari dell’olio extravergine di oliva

La Food and Drug Administration, autorità governativa statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha preso posizione, nel mese di novembre, sulle virtù salutari dell’olio d’oliva.

La dichiarazione si inserisce nella  Nutrition Innovation Strategy volta a promuovere nuove modalità per ridurre il carico delle malattie croniche dovute a cattiva alimentazione. Lo strumento divulgativo è l’uso di “health claims”, cioè la pubblicazione della classificazione dei prodotti alimentari in base alle proprietà curative. L’intento è di aiutare il consumatore nelle proprie scelte e di incentivare l’industria alimentare a riorientare l’offerta. La FDA distinguerà tra attributi salutari autorizzati e qualificati

Alla prima classe appartengono gli alimenti per i quali vi sono prove scientifiche incontrovertibili circa la relazione tra qualità curative e malattia contrastata.

L’assegnazione di requisito salutare qualificato si fonda invece su più limitate, ma pur sempre rilevanti, evidenze scientifiche circa le virtù nutriceutiche dei cibi. La parola deriva dalla fusione della prima metà della parola nutrizione e della seconda del termine farmaceutico.

Etichetta UE di olio di oliva con health claim

La FDA ha iniziato la nuova politica attribuendo quest’ultima qualità agli olii commestibili contenenti almeno il 70% di acido oleico, un grasso monoinsaturo. Ha riconosciuto infatti gli effetti di prevenzione delle malattie cardiovascolari, quando esso viene permanentemente sostituito a grassi saturi che, al contrario, danneggiano il cuore.

I produttori indicano sulle etichette che il consumo giornaliero di un cucchiaio e mezzo (20 grammi) di oli contenenti alti livelli di acido oleico e di polifenoli antiossidanti. Questi ultimi infatti non degradano fino a temperature di cottura molto alte, riducendo il rischio di malattie alle coronarie.

Pur non essendo limitata agli oli di oliva (la prerogativa riguarda anche alcuni oli di semi),  la pubblicizzazione di questa caratteristica apre una prospettiva davvero favorevole su un mercato ricco come quello statunitense per coloro che (paesi e produttori) sono coinvolti nella produzione. Noi, secondi al mondo dopo la Spagna, dobbiamo vedere importanti opportunità da questa politica alimentare, sapendo gestire le nostre responsabilità, vale a dire mantenendo alta la qualità delle nostre produzioni.

Nei fatti la European Food Safety Authority della UE già nel 2012 aveva approvato la seguente dizione da porre sulle etichette dell’olio extravergine di oliva “The consumption of olive oil polyfenols contribuites to the protection of blood lipids from oxydative stress”, con la raccomandazione di un consumo giornaliero di 20 grammi (cfr. Foto sopra).

I nostri controversi dati

Le statistiche dei paesi più ricchi indicano un forte aumento nei consumi di olio di oliva.

La Coldiretti osserva che “la crescita dell’olio d’oliva sulle tavole di tutto il mondo è avvenuta in modo vorticoso a partire dal Giappone dove i consumi sono aumentati di 8 volte raggiungendo i 55 milioni di chili, mentre in Gran Bretagna si è registrata una crescita del 247,6% fino a 58,4 milioni di chili e in Germania l’incremento è stato del 359,7% fino ai 61,6 milioni di chili.

Una rivoluzione nella dieta delle famiglie si è verificata anche in Paesi come il Brasile dove l’aumento è stato del 313% per un totale di 60 milioni di chili, la Russia con una crescita del 233% anche se le quantità restano limitate a 20 milioni, il Canada con 39,5 milioni di chili e un incremento del 229% e la Francia che, con un progresso del 154%, ha superato i 111 milioni di chili”. Gli Stati Uniti hanno superato i 315 milioni di chilogrammi consumati in un anno, triplicandoli in meno di una generazione. 

In Italia assistiamo invece al paradosso che il consumo medio pro-capite è sceso negli ultimi anni di circa il 30% passando da 12 kg a poco più di 8 kg. Ne consumiamo complessivamente circa 500 milioni di chili, di cui soltanto 300/350 prodotti in Italia. Siccome ne esportiamo per un ammontare analogo, il mercato, secondo i più qualificati osservatori, mostra distorsioni sia sul fronte interno sia su quello internazionale, volendo sfruttare il marchio del Made in Italy. Le contraddizioni non mancano.

Le ragioni di questo calo nei consumi possono essere molteplici: da una parte l’aggressività dei produttori di altri oli, meno salutari, e dall’altra un’offerta di olio di oliva di importazione a basso prezzo, ma anche di bassa qualità e di peggiori caratteristiche organolettiche, che finiscono per creare disaffezione nei consumatori.

Sta di fatto che rischiamo di andare in controtendenza rispetto alle crescenti preferenze del resto del mondo per un alimento ad alto valore salutare, infliggendo una ferita alla nostra osannata dieta mediterranea, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco.  

Il patrimonio olivicolo nazionale
Ulivo plurisecolare di S’ortu manno in Sardegna

Dobbiamo tenere a mente che tutto il territorio nazionale può produrre olio di oliva di alta qualità, cioè in grado di ottenere la qualifica DOP e Igp (attualmente sono soltanto una cinquantina quelli riconosciuti dalla UE) le quali danno la massima garanzia in merito alla tracciabilità del prodotto. Inoltre la varietà delle specie italiche, con 533 cultivar distribuite su 250 milioni di piante, è unica al mondo.

La categoria di olio extravergine di oliva, per quanto basata su elementi oggettivi di identificazione, si dimostra sempre più insufficiente a qualificare di per se’ le nostre migliori produzioni. 
Sempre Coldiretti ricorda che tutte le regioni italiane, seppur in misura diversa, hanno vocazione olivicola, con oltre 400 mila aziende specializzate e una produzione localizzata per metà in Puglia e a seguire in Calabria e Sicilia. Campania, Lazio, Toscana e Liguria rappresentano ciascuna una fetta fra il 3 e il 5% dell’offerta nazionale. Aree olivicole importanti si trovano anche in Veneto, Umbria, Sardegna, Molise e Lombardia, che in Valtellina vanta gli uliveti più a nord d’Italia.
È tuttavia un patrimonio poco valorizzato nelle sue potenzialità, che richiede sistematici interventi di policy pubbliche e di investimenti privati per un suo più intensivo e qualificato sviluppo, concentrandosi sulla sperimentazione attinente alle cultivar nazionali.
Dovremmo in buona sostanza aumentare le produzioni dei nostri oli di oliva di qualità, per contrapporsi ai nostri agguerriti competitors mediterranei appartenenti all’Unione (Spagna, Grecia e Portogallo) e non (Tunisia, Egitto e Turchia), più propensi a puntare sulle quantità. In prospettiva dovremo affrontare anche la concorrenza di nuovi produttori come Australia, Usa e Cina.
Cultivar di olivo leccino italiano
Il settore della produzione va dunque rapidamente riorganizzato, con interventi sulle filiere (coltivazione-produzione-commercializzazione-ricerca), diffondendo tecniche di meccanizzazione della raccolta, irrigazione a risparmio idrico, impollinazione artificiale e monitoraggio digitale per il contrasto delle patologie della pianta e del frutto. In primis della mosca olearia.

Un’importante evoluzione è di trasformare i centri di lavorazione delle olive, di solito cooperativi o consortili, in piattaforme di servizi, attente alla consulenza a favore dei soci conferenti i raccolti, alla raccolta dati meteo e sulle malattie delle piante (i big data dell’ulivo), nonché al confezionamento personalizzato del prodotto finito. La certificazione di enti terzi evita il rischio di autoreferenzialita’.

Politiche incentivanti debbono essere attivate dal Ministero delle politiche agricole e dalle Regioni, nell’ambito del Piano Olivicolo Nazionale, con i Piani Integrati di Filiera (PIF), affinché tutti gli operatori coinvolti si convincano dei vantaggi della integrazione e della innovazione dell’intero processo. È il modo affinché la ricerca possa apportare sistematicamente il proprio contributo al miglioramento delle produzioni.

Sono da superare alcuni vincoli di natura economica, aumentando le superfici coltivate soprattutto irrigue, riducendo la frammentazione proprietaria, estendendo le produzioni biologiche e promuovendo più efficaci campagne di informazione del consumatore.

Si tratta di imporre comportamenti rigorosi circa le notizie da riportare sulle etichette, per evitare il rischio che venga spacciato per italiano olio di altra provenienza. E bisogna anche uscire da malintesi sensi di preservazione ambientale, decidendoci a sostituire piantagioni vecchie e/o ammalate con nuovi impianti.

Educazione alimentare e un suggerimento pratico

Ne va dopotutto non solo della nostra efficienza produttiva in agricoltura, ma anche della nostra cultura olearia. Sarebbe davvero una iattura se subentrassero fattori capaci di farci ulteriormente retrocedere, innescando una sorta di analfabetismo alimentare di ritorno. Cosa che potrebbe mettere a rischio anche il primato di essere diventati, grazie all’elemento simbolo della dieta mediterranea, una delle popolazioni più longeve del pianeta.

Anche il consumatore meno incline a informarsi leggendo con attenzione le etichette deve sapere, come ci ricordano gli esperti, che “un olio extravergine di oliva di qualità ha da essere profumato all’esame olfattivo, deve ricordare l’erba tagliata, sentori vegetali e all’esame gustativo deve presentarsi con sentori di amaro e piccante, mentre gli oli di bassa qualità puzzano di aceto o di rancido e all’esame gustativo risultano grassi e untuosi. Riconoscere gli oli extravergine di qualità significa acquistare oli ricchi di sostanze polifenoliche antiossidanti fondamentali per la salute, che si possono riconoscere da un sapore forte, anche se, paradossalmente, i consumatori sembrano preferire gli oli “delicati”.
La produzione e il consumo di oli extravergini di qualità sono un terreno di sfida per la nostra agricoltura e per la nostra educazione alimentare.

 

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1 COMMENT

  1. Innanzitutto la ringrazio del pensiero, in quanto ho letto con attenzione e piacere l’articolo che mi ha inviato.

    Quelli che ha toccato nell’articolo sono tutti temi attuali e che, in parte, sono emersi durante l’incontro presso l’accademia dei Georgofili.

    E’ paradossale, a mio avviso, il dato emerso dal consumo medio di olio extra vergine di oliva pro capite in Italia e in Europa. La verità è che la crisi economica che ha colpito il nostro Paese e la scarsa informazione del consumatore medio sulle proprietà e sulle qualità dell’olio extravergine di oliva (e aggiungerei Toscano), fanno sì che la nostra produzione venga quasi tutta esportata.

    Abbiamo un patrimonio olivicolo, inoltre, che non possiede nessun altro Paese al Mondo.
    Anch’io in questo momento sono piuttosto combattuto sulla possibilità di adottare dei sistemi olivicoli superintensivi con varietà italiane (e toscane) per abbattere i costi di produzione ed il classico sesto di impianto 6×7 m o 6×6 m. Con il primo metodo si andrebbe ad imitare il modello spagnolo, puntando più sulla quantità che sulla qualità, abbattendo i costi di produzione ed essendo competitivi su più mercati, col secondo si punterebbe sulla grande qualità che da sempre ci contraddistingue sui mercati con la nostra grande varietà olivicola.

    Lo spostamento da una ad un’altra tipologia di impianto dipende dalle esigenze del mercato.

    Per valorizzare il nostro patrimonio olivicolo e tutelare le nostre produzioni, affinché queste restino in piedi economicamente, dobbiamo puntare sulla diffusione e sulla valorizzazione di queste informazioni, il tutto sostenuto da una politica che TUTELI i nostri valori.

    I temi che Lei ha citato e quelli emersi durante il convegno dovrebbero essere condivisi con un pubblico sempre più ampio affinché si diffondano e nasca in ognuno di noi una consapevolezza critica con informazioni complete e corrette che purtroppo ad oggi mancano.

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